Una scena del film "Il Deserto dei Tartari" (1976) di Valerio Zurlini, con Philippe Noiret
Il Deserto dei Tartari? «Uno dei romanzi più singolari che si siano pubblicati da noi negli ultimi anni», scriveva sul “Corriere della Sera” Pietro Pancrazi nella recensione al romanzo che consacrerà Dino Buzzati tra i massimi scrittori del Novecento. Era il 1940, sono passati molti decenni, ma l’affermazione resta attuale:inossidabile al tempo, Il Deserto – che compie proprio oggi ottant’anni – resta una delle opere più originali della letteratura italiana, così come il suo autore svetta tuttora tra le voci più affascinanti e capaci di parlare al mondo attuale.
La trama è scarna perché protagonisti del romanzo sono solo il tempo, lento e inesorabile, e l’attesa: nella lontana e leggendaria Fortezza Bastiani generazioni di soldati invecchiano aspettando l’evento che dia un senso alla loro esistenza, l’arrivo dei Tartari dal deserto del Nord. I giorni e gli anni si succedono uguali con gli occhi puntati all’orizzonte, tra speranze e disillusioni,senza che nulla accada... Eppure Bastiani continua a esercitare il suo fascino su tutti coloro che man mano vi arrivano freschi di nomina e vi prestano servizio: ognuno certo di fermarsi solo pochi mesi e ansioso di essere trasferito altrove, ma poi tutti ugualmente imprigionati dal sortilegio della Fortezza e dall’ossessione del nemico, che prima o poi dovrà pure arrivare insieme alla gloria.
Un’ossessione che “ammala” di pagina in pagina anche il lettore, coinvolto da atmosfere e rimandi misteriosi. Anche il lettore infatti “invecchia” insieme a Giovanni Drogo (alter ego di Buzzati), arrivato giovane tenente e, nel finale del romanzo, sfinito e anziano.Apparentemente un fallito. Dopo tanta attesa, infatti, i Tartari cui nessuno credeva più sono davvero arrivati, le loro armi si profilano lucenti all’orizzonte, proprio adesso che lui, malato e inutile alla battaglia, viene tradito e crudelmente rimandato a morire in città. Questa per lo meno è la vulgata, la lettura che tradizionalmente viene fatta del Deserto dei Tartari, visto come un romanzo disperato e dal finale tragico. Se non fosse che Buzzati nel trentesimo capitolo, l’ultimo e il più importante, con un colpo di scena capovolge le situazioni e fa proprio di Drogo l’unico vincente: è solo, è vero, lo hanno cacciato dalla Fortezza proprio al sopraggiungere della grande “Occasione”, portato via su «una carrozza di ottima costruzione», per carità, «una vera carrozza da malato», mentre i suoi compagni «eccoli adesso a far bottino di gloria». Ma è proprio ora, nella umile locanda lungo la strada, che avviene il disvelamento. Drogo/Buzzati è seduto «su di una larga poltrona» («la Fortezza era lontana, non si scorgevano più nemmeno le sue montagne») e improvvisamente nella sua stanza entra Lei, la morte. Eccola «la sua grande occasione, la definitiva battaglia che poteva pagare l’intera vita»: non i Tartari, ma l’estremo valico, la grande soglia verso un Altrove. Non oscura disperazione ma «estrema speranza»: «Drogo fece forza contro l’immenso portale nero e si accorse che i battenti cadevano, aprendo il passo alla luce». La “gioia” è “inesprimibile”, scrive Buzzati, lui è l’eroe, i veri perdenti sono i compagni che ora stanno combattendo a Bastiani. Sulla sua poltrona Giovanni Drogo drizza dunque il busto con dignità militare, guarda dalla finestra la «sua porzione di stelle» e infine, benché nessuno lo veda, “sorride”, non a caso l’ultima parola del romanzo. Un finale quasi sempre “dimenticato” in tante versioni teatrali e addirittura nella, per il resto splendida, interpretazione cinematografica del Deserto dei Tartari portata sul grande schermo nel 1976 da Valerio Zurlini. Così, però, il Deserto è rimasto per decenni un romanzo frainteso e tradito.
Lo si comprende appieno se si conosce a fondo l’intera produzione di Buzzati, tutta pervasa – dagli esordi alle ultime pagine di diario che precedono la morte (1972) – dalle stesse tensioni verso un oltre che non sa come chiamare, dagli stessi richiami che messaggeri pazienti e misteriosi ci inviano («proponendoci la salvezza dell’anima»), dalla stessa ansia verso la morte,temuta e attesa. D’altra parte è lo stesso Buzzati nel 1966 ad ammettere che il Deserto dei Tartari è «il libro della mia vita perché quando stavo scrivendolo capivo che avrei dovuto continuare a scriverlo per tutta la durata della mia esistenza e concluderlo solo alla vigilia della morte».
Nei decenni ha cambiato stile, il suo pessimismo lo ha reso crudo, a volte davvero disperato, ma mai lo ha allontanato dalla affannosa ricerca di quell’altrove che percepiva e invocava. Non credente ma mai ateo, ha passato l’esistenza a sondare il mistero della vita e della morte, come scrisse di lui Montale nel gennaio del ’72: gli oggetti erano per lui segnali di un mondo superiore che percepiva, erano «una porta che un giorno avrebbe potuto aprirsi. E Dino, naturaliter cristiano (anche se pagano come tutti gli artisti) poteva quasi tranquillamente ostinarsi a bussare.E così fu per lunghi anni». Proprio come Drogo.