Giuseppe Dossetti (1913-1996) è stato teologo, giurista e politico (Ansa)
Era il 1972 quando don Giuseppe Dossetti si trasferì in Terra Santa, a Gerico, città a maggioranza araba dove continuò a ruminare la Bibbia e a interrogarsi sul cristianesimo. Salvo alcuni rientri in Italia, visse lì una decina d’anni, con la maggior parte dei fratelli della Piccola Famiglia dell’Annunziata, mentre le sorelle stavano a Gerusalemme. Poi, fra l’ ’83 e il ’95, lo si sarebbe potuto incontrare - come capitò a chi scrive nelle nuove case “miste” della comunità da lui fondata: a Main (Giordania) o Ain Arik ( Territori Occupati). Ora a quegli anni di “vita monastica” lontano dall’Italia, è dedicato il nuovo numero della rivista Egeriaedita da Nerbini.
Introdotta da Marco Giovannoni, la monografia scandaglia quel periodo attraverso contributi differenti. Di carattere teologico e storico sul pensiero di Dossetti a proposito del «mistero di Israele» (Fabrizio Mandreoli) e dell’«islam enigma post-cristiano » (Ignazio De Francesco); di taglio geopolitico (Enrico Galavotti) e biblico (Giuseppe Ferretti e Nicola Apano); infine in relazione alla «scoperta delle Chiese orientali» ( Tommaso Bernacchia).
Si tratta di saggi che offrono testi inediti o poco circolati, avendo Dossetti connotato la sua presenza laggiù con nessun altro fine che «l’incoraggiare i cristiani a restare»,«l’attestare ascolto e attenzione verso non poche rivendicazioni islamiche». Ed essendosi impegnato a rompere il silenzio solo quando necessario: cosa verificatasi più volte come documentano qui in particolare i saggi di De Francesco e Galavotti.
Il primo, ad esempio, restituendoci la forte consapevolezza degli effetti del conflitto arabo-israeliano sull’inasprirsi del radicalismo islamico e la sopravvivenza delle locali comunità cristiane, come pure una lettura dossettiana della politica di Israele nella sua «funzione catalizzatrice di ogni contrasto fra cristiani e musulmani »(8 novembre ’78): nella previsione di una radicalizzazione dell’islam - effetto degli sconvolgimenti geopolitici nell’area - diventerà denuncia pubblica nel ’90, con una lettera non firmata al Regno all’avvio della Guerra del Golfo. «L’islamismo radicale aveva bisogno di questo e ne trarrà vantaggio. Anche se Saddam Hussein fosse eliminato, l’Occidente si troverà di fronte un islamismo radicale più difficile da combattere e ideologicamente più inestirpabile, sia nei paesi musulmani che nell’Europa stessa. Vi saranno conseguenze evidentissime per la chiesa... ».
Il tema, dilatato agli effetti dei flussi migratori musulmani verso Occidente, insieme alla questione del risveglio politico dei popoli arabi e alla ripresa del loro messaggio religioso, costituirà riflessione costante nell’ultimo periodo della vita di don Giuseppe. Spesso in un intreccio fra teologia e geopolitica. Basterà qui ricordare l’inedito discorso ai seminaristi di Venegono il 30 marzo ’93. Disse in quell’occasione: «Non so se voi vi rendete conto di quel che significa per il nostro paese inserito nel Mediterraneo a poche centinaia di chilometri dalla sponda africana, l’islam […]. L’islam ha una formulazione religiosa incomparabile, di una semplicità che può soddisfare i bisogni fondamentali dell’uomo e la sua intelligenza razionale […].È un monoteismo puro nella sua espressione più radicale, facilmente convertibile in una forma di secolarizzazione aggressiva. Quindi con una carica poi demografica enorme e con una esigenza di espansione incoercibile. Altro che comunismo! […]. So che ci possono essere formule più domestiche o addomesticabili, ma non il nocciolo duro dell’Islam».
Commenta De Francesco che è difficile concludere da queste parole se Dossetti davvero pensasse a una conversione dell’Europa all’islam, come sistema dottrinale potenzialmente sostitutivo di ideologie precedenti. Di certo si tratta di espressioni forti. Resta, ciò nonostante, il suo interrogarsi mite innanzi all’islam «enigma della storia», insieme al suo «essere lì dove i musulmani sono»; resta, innanzi a questo «mistero tremendo», l’impegno affidato in tre frasi dettate nell’introduzione a Main dell’adorazione eucaristica comunitaria al venerdì, al contempo intenzioni di preghiera e programma d’azione: «1. Per i credenti dell’islam e la loro piena conversione al Signore Gesù; 2. Per la nostra comprensione e discernimento più profondo in merito all’islam; 3. Per il rapporto della Chiesa e delle chiese con i musulmani».
Di grande interesse, poi, nel numero di Egeria, il contributo di Galavotti, che richiama tappe della biografia e del pensiero dossettiano utili a spiegarne l’evoluzione di posizioni. Ad esempio quella sfociata in una desacralizzazione del blocco occidentale a guida statunitense, che si avverte nell’articolo «Inchiesta sull’America» uscito su Cronache Sociali nel ’47, sempre attribuito ad Alberto Toniolo, in realtà di Dossetti, dove addirittura registra la presenza «nel paese della libertà individuale e della felice stabilità sociale» di «alcune caratteristiche essenziali dei totalitarismi fascisti o del collettivismo marxista», nonché il profilarsi all’orizzonte americano del dilemma tragico sovrastante l’Europa «cioè la scelta tra una frattura rivoluzionaria o una reazione autoritaria all’interno e imperialista all’estero».
Altro passaggio su cui fermarci del testo di Galavotti quello dedicato alla reazione di Dossetti dopo le stragi di Sabra e Chatila. In quell’occasione, per non far passare il suo silenzio come condiscendenza o complicità scrisse che si era consumato nei campi profughi un «delitto senza ragione, nemmeno apparente di sicurezza militare, delitto a carico di vittime innocenti coperte poi dalla faccia della terra con i bulldozer» aggiungendo che «la responsabilità del governo israeliano e del suo esercito» era «palese a tutto il mondo», aggiungendovi l’aggravante dell’aver addossato l’esecuzione materiale del massacro a milizie ricordate per l’occasione come “cristiane”...».
Quando nel 1986, alla consegna dell’ Archiginnasio d’oro a Bologna, ripercorse la sua autobiografia, indicò nella sua persona da un lato «la memoria indelebile dell’olocausto ebraico e un’apertura e una sensibilità consonanti con la grande tradizione dell’Israele eterno - l’Israele spirituale...», dall’altro la «consapevolezza che il mondo intero, specialmente il nostro mondo occidentale (prima e più ancora che lo stesso Stato israeliano) ha commesso - e continua a commettere - nei confronti degli arabi palestinesi un’enorme ingiustizia (qualunque sia il loro errore o la loro colpa) e che la pace - nello stesso interesse dello Stato di Israele - non potrà esservi senza una riparazione effettiva delle ingiustizie consumate e senza la restituzione di una parte dei territori».
Galavotti ricorda anche le reazioni di Dossetti dopo il bombardamento della Libia del 1986 e Desert Storm, vaticinio sulle conseguenze portatrici di «tumultuose reazioni fra molti stati più o meno coinvolti»; «reazioni che nessuno sarà più in grado di dominare, e non solo in tutti i paesi arabi». Diversamente da occasioni precedenti, Dossetti invece lasciò circolare solo tra i membri della Piccola Famiglia la sua reazione all’attentato del ’94 presso la moschea di Hebron del colono Baruch Goldstein, dove morirono ventinove persone e centoventicinque furono ferite. Una strage che Dossetti dichiarò sacrilega, spiegabile a suo vedere «solo con l’aberrante cultura che ha dominato per anni gli inizi e il proseguimento sino ad ora dello Stato sionista», la cultura incarnatasi «nella politica degli insediamenti» e «nella prassi quotidiana dell’esercito israeliano» accusato di aver risposto per anni «a isolate azioni terroristiche arabe con i bombardamenti di massa indiscriminati e le sue implicazioni».
Parole giunte ad oltre vent’anni dall’arrivo in Medio Oriente e precedevano di due anni la sua morte. Bilancio di riflessioni di anni spesi nella convinzione che le grandi strutture ideologiche e politiche - pilastri del mondo non potevano accontentare i cristiani e dare loro pace: perché, come disse ad alcuni pellegrini in Terra Santa nel ’90 «consumano troppe ingiustizie e consumano troppa realtà umana».