mercoledì 6 maggio 2020
Il digitale, nel tempo della “postverità”, cambia la politica e il consenso: il nuovo saggio di Damiano Palano
Divide et impera, la nuova democrazia creata dal web
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L’inaspettato successo di Barack Obama nelle primarie dei Democratici nel 2009 contro la ben più quotata Hillary Clinton, e poi nelle elezioni presidenziali avendo la meglio su John McCain, non è stato soltanto il risultato di una straordinaria sfida civile e politica. Vi è stata da parte del senatore dell’Illinois la capacità di costruire una campagna elettorale di rara efficacia che, da un lato, sapeva usare le nuove tecnologie per il fundraising – anziché pochi grandi finanziatori, moltissimi donatori di piccole somme attraverso il web – dall’altro interpretava al meglio la comunicazione politica nell’età dei social media. Al suo fianco si trovava Eli Pariser, l’autore di The Filter Bubble. Al centro del libro vi era la svolta che si era compiuta proprio in quegli stessi mesi, quando Google aveva deciso di “personalizzare” le ricerche che gli utenti realizzavano online con il proprio motore di ricerca. A questo scopo veniva usato l’algoritmo Page Rank, pensato per restituire output più consoni alle aspettative e ai gusti di ogni singolo utente. Da allora, i cookies, che attraverso il browser vengono a insinuarsi nei siti visitati, creano una memoria dei precedenti passaggi, così da poter riconoscere successivamente il visitatore, e profilarlo in termini di gusti, interessi, abitudini per farlo così destinatario di messaggi promozionali calibrati su misura.

Tutto questo non ha soltanto degli evidenti vantaggi pratici: gli algoritmi non sono solo capaci di scoprire – e talvolta persino anticipare – le nostre scelte individuali, ma tendono a creare attorno a ciascuno di noi una filter bubble, per dirlo con Pariser: una bolla che filtra tutte le informazioni provenienti dal mondo esterno, facendo penetrare solo ciò che risulta coerente con le preferenze dell’utente. Per cui, ogni soggetto tende a vivere dentro una dimensione virtuale, da cui vede un mondo personalizzato che rispecchia la propria soggettività, soprattutto in termini di consumi. Naturalmente, la disintermediazione realizzata dai social media muove nella medesima direzione, votata anch’essa a rafforzare i convincimenti individuali e regalare loro contesti in cui possano trovare conferme acritiche.

Rischiano di essere giudicate irrilevanti, inattendibili o addirittura false quelle informazioni che contrastano con le proprie opinioni, proliferano le fake news e nasce l’idea della “postverità”, tipica dell’età della disintermediazione. Quali sono le implicazioni politiche di tutto questo? È ciò che si chiede Damiano Palano – professore ordinario di filosofia politica all’Università Cattolica di Milano – nel suo ultimo libro, intitolato appunto Bubble Democracy. La fine del pubblico e la nuova polarizzazione (Morcelliana, pagine 224, euro 16). «La tesi – spiega l’autore – è che il nuovo ambiente mediale e in particolare la diffusione dei social media favoriscano dinamiche molto differenti non solo da quelle della “vecchia” democrazia dei partiti, protagonista di una parte rilevante del Novecento, ma anche da quelle della democrazia del pubblico». Questa espressione è stata usata da Bernard Manin nel suo classico sulla rappresentanza politica uscito nel 1997 per indicare la passività operata dalla società di massa e la tendenza a sostituire il consumatore al cittadino, calando quest’ultimo in u- na sorta di audience massmediatica fluida e mutevole.

La Bubble Democracy di cui parla Palano è un passaggio ulteriore, di non poco momento, dove la cifra distintiva è rappresentata dall’individualismo 2.0 costruito delle “bolle” autoreferenziali in cui tendono a collocarci le nuove tecnologie della comunicazione: mentre in passato la politica è sempre stata un fenomeno per sua natura collettivo, i media di nuova generazione non fanno altro che giocare sulla soggettività individuale – comprese le piattaforme che vorrebbero rendere possibile la democrazia diretta – rinunciando del tutto a quel “noi” su cui si sono costruite le identità dei partiti del Novecento. Se pensiamo al successo del populismo di questi ultimi anni alla luce di queste annotazioni, non sarebbe arbitrario formulare un’ipotesi più generale «secondo la quale – osserva ancora Palano – le tensioni innescate da una pluralità di fattori – economici, politici e culturali – potrebbero aver prodotto risultati tanto eclatanti sull’assetto dei sistemi politici occidentali anche perché si sono incontrate con un nuovo scenario comunicativo». In altre parole, se la democrazia del pubblico aveva come protagonisti i partiti post–ideologici, costruiti per muoversi secon- do i dettami del marketing politico allo scopo di catturare il voto d’opinione delle fasce mediane dell’elettorato, la Bubble Democracy è invece divisiva e conflittuale, incardinata sui personalismi e sulle leadership, propensa alla polarizzazione e alle spinte centrifughe verso le code estreme del continuum politico. Come ripete più volte Palano, tuttavia la Bubble Democracy è soltanto un idealtipo a cui non si deve attribuire valenza deterministica: la realtà è sempre pronta a smentire le teorie che si sforzano di interpretarla.

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