Il primo gol in Serie A, al Bologna, di Vincenzo D'Amico
Domenica sera si gioca Roma-Lazio. E questa storia da calcio romantico, che non c’è più, è una storia da derby del cupolone o da romanzo capitale. Una storia “riscritta” un pomeriggio dello scorso fine luglio, sotto la Torre Eiffel, in coda per la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi di Parigi 2024. Sotto una pioggia battente mentre gli abiti si infradiciavano, con Gianluca Atlante, inviato sorianesco del quotidiano “Latina Oggi”, i ricordi erano gli unici a restare asciutti. E così abbiamo condiviso quelli riguardanti l’idolo comune della nostra giovinezza, Vincenzino D’Amico. Quel n. “10”, principe degli irregolari in campo, che come Ezio Vendrame poetava con i piedi, di destro e sinistro all’occorrenza, essenzialmente per compiacere il suo pubblico, perché sapeva che il gol in fondo è la fine di tutto. A Vincenzino che con i sogni e le speranze della domenica ha riempito i vuoti a perdere della nostra adolescenza, Gianluca Atlante ha dedicato una biografia scritta di cuore e di pancia, Vincenzo D’Amico. Volevo giocare nella Lazio (Lab Dfg. Pagine 157. Euro 17,90). Un libro che avrebbe sfogliato volentieri, seduto al loro Caffè Friuli, anche il suo amico scrittore e concittadino Antonio Pennacchi, con il quale prima che andasse via per sempre (nel 2021 ) avevano progettato di scrivere a quattro mani un romanzo storico sulla tradizione dei canottieri di Terracina.
Ma tornando alla favola del giovane Holden di Latina, ho parlato di “riscrittura”, perché questo amarcord laziale, con sfumature giallorosse, comincia proprio da frammenti di memorie famigliari. Atlante, mentre è annaffiato dal cielo di Parigi rivede l’Olimpico imbandierato e riascolta i cori dei tifosi in delirio il giorno dello storico scudetto. Il primo scudetto della Lazio, 12 maggio 1974. “Quello per me fu un giorno misto di grande gioia e di profonda tristezza. Io e mio padre Michele con i biglietti in tasca di Lazio-Foggia andammo a trovare mia madre che era ricoverata alla clinica Paideia, la stessa dove andavano a curarsi i giocatori della Lazio. Mamma aveva appena perso quella che sarebbe stata mia sorella. Dalla finestra della camera d’ospedale s'intravvedeva l’Olimpico e quello scudetto gigante con i palloncini pronti a volare in cielo. Mia madre capì tutto e disse: "Michele, levati di torno, prendi tuo figlio e portalo a vedere la partita”. Quel giorno, al fischio finale con la Lazio campione d’Italia, vidi mio padre piangere come me, come un bambino. Papà morì il 21 febbraio del 1975, se ne andò con lo scudetto cucito sul petto". Quel giorno invece io purtroppo non c’ero, nonostante mio padre, Mario Castellani detto la “spalla” (come la spalla di Totò) mi avesse fatto debuttare all’Olimpico, sugli spalti della Tribuna Tevere, a soli sei mesi, nella primavera del 1970 in un Lazio-Juventus che, ho scoperto molto dopo, finì 2-0 con rigore segnato da Giorgio Chinaglia. E qui, con il condottiero Long John e il popolo laziale che grida in coro “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia!” si entra nel vivo del romanzo di Vincenzino e la fabbrica dei sogni appesi ad un pallone. Sogni ad occhi aperti fatti con l’amico del cuore e il compagno di squadra che poi sarebbe diventato “l’avversario” nei derby incendiari della capitale, Bruno Conti. Sogni di ragazzi pasoliniani, nati e cresciuti oltre i bordi di periferia. Vincenzino, figlio del cortiletto del lotto popolare del quartiere Nicolosi, ma anche del progresso di quella città, Littoria, fondata dal Duce appena vent’anni prima della sua nascita, quando a guerra finita era diventata Latina. “Palazzoni, grattacieli, industrie, centrale nucleare”, Latina tutta proiettata al futuro e a due passi dal mare di Nettuno, lì da dove in corriera arrivava Bruno, conteso tra la passione per il baseball (gli americani di Santa Monica volevano portarselo via) e le partite senza fine sul campo in pozzolana del Cos Latina, “quello , dell’oratorio di San Marco, che per lui e Vincenzino era molto più che un semplice rifugio”, scrive Atlante.
Bruno e Vincenzo si conoscono nel 1969 “e da quell’anno è nata un’amicizia unica, al di là delle strade che successivamente ognuno di noi ha preso”, ha raccontato Conti all’inviato di “Latina Oggi”, ricordando gli allenamenti in cui sperimentavano le prime magie sotto gli occhi stupiti di quel “fratello maggiore” di Giancarlo Sibilia, il loro primo allenatore. I pranzi preparati da mamma Anita, la madre di Vincenzo, l’anno del militare insieme e poi la Nazionale (sogno sfumato per Vincenzino per “lesa maestà” al ct Bearzot che puntò su Bruno Conti) e il terzo amico, per niente incomodo, l’altro campione laziale, Bruno Giordano. “Ma con Vincenzo c’è stato tanto amore, inteso come amicizia”, confessa un Bruno Conti che, come l’altro Bruno, Giordano, che ha scritto la prefazione del libro (postfazione affidata a mastro Italo Cucci), non ha mai dimenticato l’amico che non c’è più. Ma prima di arrivare alla fine del romanzo popolare e le lacrime che servono solo a riempire il vuoto dell’assenza , bisogna passare per gli indelebili momenti di gloria. L’ascesa rapida del talento, ottusamente bocciato dal Latina e che arriva nella capitale per giocare nell’Almas, dove quelli della Lazio scoprono il fenomeno e lo portano a Tor di Quinto per affidarlo alle cure di colui che sarebbe diventato il suo secondo padre, Tommaso Maestrelli. L’allenatore della Lazio dello scudetto, davanti a quel diamante grezzo da dover solo affinare non esitò a gettarlo nella mischia, facendo di D’Amico la mascotte, come i suoi gemelli Massimo e Maurizio Maestrelli, e poi il golden boy di quella squadra da spaghetti western divisa in due clan: quello di Wilson e Chinaglia contro i seguaci di Martini e Re Cecconi. Ma Vincenzino dal sorriso perenne, la battuta sempre pronta e la sfrontatezza di chi sapeva di appartenere alla meglio gioventù calcistica degli anni ’70 (“L’anno scorso non avete vinto lo scudetto perché non c’ero io”, ripeteva alla squadra), andava d’accordo con tutti e riusciva a farsi perdonare anche un tunnel fatto a Rivera, quando irriverente lo sfidò sotto gli sguardi dei 60mila di San Siro. E ai compagni che gli intimavano di andare a chiedere scusa a sua eminenza l’Abatino rossonero, Vincenzino la peste rispondeva convinto: “Se mi ricapita, il tunnel glie lo faccio ancora”.
D'Amico primo in alto (da sinistra) e Conti primo in basso (da sinistra) accosciato ai tempi del Cos Latina - undefined
Per non finire nel tunnel oscuro, da cui molti talenti di successo - prosciugati dai vizi e usati spesso come uomini-bancomat - poi non sono più usciti, Maestrelli, con lo stesso spirito paterno che adottava per i suoi figli, a Vincenzino tolse la patente e lo stipendio, facendolo marcare a uomo dalla diga difensiva di quella Lazio, Pino Wilson e dal portierone Felice Pulici che abitava un piano sopra di lui. Una strategia più efficace della tattica che portò il ragazzo di Latina a bruciare in fretta tutte le tappe. Dopo il primo gol in Serie A (nel 4-0 al Bologna, 27 gennaio 1974 ) e le lacrime di gioia che intenerirono il popolo laziale, la sua carriera spiccò un volo leggero e celestiale, arrivando a planare a soli 19 anni alla conquista di quel mitico scudetto. Un percorso lineare, sfolgorante e parallelo a quello di Bruno Conti. L’amico ritrovato, prima del grande salto, da sfidante sulla sponda romanista. “I nostri derby, anche quelli in Primavera, erano fatti di calcio, di professionalità, diversi, come diverso era il calcio di allora”, racconta Conti che la stessa apoteosi di Vincenzino la visse nella stagione di grazia 1982-’83. Prima con la vittoria del Mundial di Spagna ’82, in cui venne incoronato miglior giocatore del torneo e per O Rey Pelè “era stato più brasiliano dei brasiliani” della Seleçao che gli azzurri allo stadio Sarrià di Barcellona fecero piangere con la mitica tripletta di Paolo Rossi. Poi, campione d’Italia, l’8 maggio 1983 Bruno Conti con la maglia della Roma si cucì al petto quel tricolore che per Vincenzino ormai era un ricordo lontano, offuscato dal calcioscommesse, la retrocessione in B della Lazio e un anno di esilio dorato nel Torino, dove il compagno granata Eraldo Pecci ricorda le giocate da campione ma soprattutto la sua nostalgia di casa. Vincenzino aveva due case del cuore, Latina e la Lazio, e sempre lì ha fatto ritorno. Per la Lazio è sceso in B (“fu l’unico calciatore a rifiutarsi di firmare la messa in mora della società”, sottolinea Atlante) e poi è rimasto anche quando nei derby data la supremazia romanista degli anni ‘80 era come se Davide dovesse sfidare Golia.
Con Atlante mentre la pioggia parigina ci aveva ormai sommersi ci ricordiamo tremanti di quel Lazio-Roma 0-2 in cui “Vincenzino venne sostituito e andò a sedersi sulla panchina del “nemico”, tra Pruzzo e Ancelotti a ridere e scherzare”. Volarono gli stracci invece in quel Lazio-Roma 2-2, in cui D’Amico (in gol su rigore) sembrava sfidare da solo gli 11 giallorossi guidati dal divino Falcao e dal funambolico Bruno Conti. E poi di quell’altro 2-2 con l’Udinese in cui, sotto il diluvio, il vero Zico in campo era Vincenzino, per la gioia del presidente-tifoso Giorgio Chinaglia che però al pari dei friulani (al 90’ gol di Virdis) entrò in campo impugnando l’ombrello: voleva farsi giustizia da solo contro "l’imparziale" arbitro Menicucci. Quelle di Vincenzino erano sfide alla pari con tutti i grandi del pianeta football, da Zico fino a Maradona, e Diego stimava D’Amico come uno appartenente alla sua razza. La razza dei Messi e dei Ronaldo, e forse, pensavo proprio quel pomeriggio olimpico di una estate fa, non è un caso che Vincenzino avesse scelto, come ultimo attracco prima di salpare per il Cielo, Madeira, il paese natale di CR7. D’Amico poi è tornato a Roma da dove è volato via per sempre, l’1 luglio 2023. Se ne è andato con il sorriso e la coscienza pulita degli uomini giusti, mandati su questa terra per regalare un po’ di gioia e di pace, specie a tutti quelli che vedendolo giocare almeno per un attimo nella loro vita si sono sentiti forti e invincibili, proprio come Vincenzino.