mercoledì 30 agosto 2023
Prosegue la ripubblicazione dell’opera dell’antropologo con un volume sulle tradizioni religiose del Sud. Un’analisi che apre le porte a una severa critica dell’idea europea di cultura
Tarantismo a Galantina, anni 70

Tarantismo a Galantina, anni 70 - Archivi Alinari, Firenze

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I grandi libri sono come gli esami secondo il grande Eduardo: non finiscono mai: E rileggerli è sempre un’avventura, sempre una scoperta: perché è vero ch’essi non cambiano, ma altresì che in realtà cambiamo noi. L’editore Einaudi procede nel suo benemerito impegno di restituirci, per mezzo di nuove edizioni, l’intera storia di Ernesto De Martino (La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, a cura di Marcello Massenzio. Pagine LII-407, euro 27,00).

Lo conosciamo bene, direte voi; e magari molti aggiungeranno di avere tanti suoi libri in casa. è qui che vi sbagliate. Ne conoscete le edizioni precedenti, e magari ne avrete letto – e ne avete presente – il contenuto, esaminato però alla luce di considerazioni critiche sia pur eccellenti, ma ormai sorpassate: perché studiare, e capire, significa anzitutto aggiornarsi.

De Martino è stato un idolo, o magari l’oggetto di critiche durissime, comunque un “mostro sacro” della nostra cultura accademica del terzo quarto del secolo scorso, un venticinquennio circa attraversato da enormi novità. Ne conoscevamo il pensiero ispirato a una visione storicistica di segno liberamente marxiano e d’impegno meridionalista, certo non dimentica dell’originaria lezione crociana e profondamente toccata da una passione civica socialista, sulla quale tuttavia la lettura di Antonio Gramsci era stata determinante; e chi ad esempio ha letto le pagine gramsciane dedicate a Giacomo Matteotti (che magari non sono le sue migliori) sa bene come nel pensiero “di sinistra”, che pur sapppiamo non omogeneo, si possa essere lontanissimi da quel crepuscolo nel quale tutte le vacche sono bigie. Ma a De Martino dobbiamo scritti davvero incontournables, che a tutt’oggi continuano ad esserlo: pensiamo a Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, del 1948 (riedito da Einaudi nel 2022); al commovente e sconvolgente Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, del 1958 (riedito nel 2021); all’ancor oggi fondamentale Magia e civiltà, del 1962; e ai molti saggi suoi e di altri, taluno epocale, contenuti nelle raccolte Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro edito nel 1995, Furore simbolo valore edito nel 2002, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, edito nel 2019.

Uno studioso così non lo si cataloga: certo, fu storico delle religioni, etnologo, filosofo della storia aperto precocemente a ogni sorta di esperimento interdisciplinare, pioniere della ricerca sul campo nel “suo” Meridione e perfino – com’è stato arditamente ma non arbitrariamente definito – etnopsichiatra orientato a una conoscenza della historia rerum gestarum sicura e definitiva in sé ma tesa alla conoscenza di un’historia condenda, una realtà futura possibile che consenta di far rivivere il passato angosciante trasformandolo in un futuro migliore.

La terra del rimorso, dedicata al mito diffuso nell’àmbito dell’area di Taranto del morso della tarantola che provocherebbe nelle vittime una danza frenetica, e al rinnovato morso di essa (il “rimorso”, appunto), che darebbe luogo a un rituale di liberazione dall’angoscia frenetica grazie al sapiente uso da parte di esperti locali di un apparato di musiche, di danza (tutti conoscono la “tarantella”…) e di colori, aveva e nei rituali a tutt’oggi praticati ad esempio a Galatina conserva un suo valore testimoniale preciso.

Si tratta basicamente di uno studio sugli usi magico-religiosi folklorici del Mezzogiorno, che fu preceduto da una larga inchiesta (“sul campo” nel 1959) e che, uscendo nel 1961, venne messo in rapporto – com’era indicato dallo stesso De Martino – col capolavoro dell’antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss, Tristes tropiques, edito nel 1955 e tradotto in italiano nel 1960. E grande era il debito di entrambi gli studiosi nei confronti di Sigmund Freud e in particolare della sua monografia dedicata nel 1920 al tema Al di là del principio del piacere, con le pagine assolutamente rivoluzionarie su quel che la psicanalisi definisce “abreazione”, cioè «il momento decisivo della cura – come appunto spiegava Lévi-Strauss in Anthropologie structurale – in cui il malato rivive la situazione all’origine del suo squilibrio, prima di superarlo definitivamente». Ed esistono gli “abreatori professionali”: sciamani o psicanalisti che siano.

Ed ecco il punto. Studiando le “tarantate” sul campo e rileggendo tutta la letteratura a ciò connessa, a cominciare dal trattato che nel Quattrocento dedicò loro l’umanista Giovanni Pontano e nel Seicento il gesuita Athanasius Kircher, il nostro Ernesto De Martino ci ricondusse alle radici dell’arretratezza e del disagio del Meridione italico, abbandonato, illuso e tradito dalle classi dirigenti italiane dall’Ottocento a oggi. Su ciò, s’innestò una polemica durissima e vivacissima.

Oggi però il “rimorso” di una falsa partenza critica deve cedere il passo al disincanto. A guidarci è proprio il curatore della nuova edizione einaudiana della Terra del rimorso, Marcello Massenzio, storico delle religioni tanto severo e appartato quanto critico “da sempre” delle mode intellettuali; con un coraggio che in certi momenti gli ha procurato qualche difficoltà, non ha esitato a servirsi di autori sempre autorevoli ma non sempre “graditi”, quali Mircea Eliade.

Il vero disagio provato da De Martino dinanzi al mito e al rito della taranta era il medesimo provato da Lévi-Strauss dinanzi ai miti e ai riti da lui studiati nell’America tropicale: quello della coscienza di una cultura occidentale moderna dotata d’una capacità violentissima di distruzione di qualunque altra civiltà e di un’immensa superbia che per circa quattro secoli l’ha autorizzata non solo a cancellare, ma anche a condannare come “false”, “arcaiche”, “illusorie”, “superate” tutte le altre civiltà che l’avevano preceduta; e addirittura a parlare anche indiscriminatamente, delle loro “pseudoscienze”. Lo aveva già notato nel 1960, un giovane studioso peraltro simpatizzante della sinistra socialista, Sergio Moravia, che all’ancora non troppo conosciuto Lévi-Strauss dedicava un breve saggio che fu sottovalutato, La ragione nascosta, che indagava sul valore delle culture “altre” rispetto a quella che sentiamo “nostra” e nel nome della quale ci sentiamo sempre e comunque “nel vero”.

Ecco la nostra “nuova Terra del Rimorso”. In questi anni di matura globalizzazione, mentre il mondo sembra avviato a una nuova fase multipolarista nel suo assetto politico, si profilano all’orizzonte anche nuove infauste forme di occidentocentrismo, nuovi suprematismi a loro volta suscettibili di provocare risposte di segno contrario ma di pari violenza antagonista. Riflettere non già sugli errori delle culture del passato o residuali del presente, bensì sul dogmatismo delle nostre pretese suprematiste di oggi, sarà necessario e salutare: se non lo faremo, andremo incontro a pericoli davvero seri. Anche in questo senso la rilettura del capolavoro demartiniano sarà salutare.

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