Gabriele D’Annunzio in divisa di ufficiale dell’Aeronautica nel suo studio al Vittoriale
D’Annunzio e la perfida Albione. Un rapporto di ostilità e d’incomprensione, nel quale fece breccia un raggio di sole, durante la Grande Guerra. Ad aggirare la tradizionale anglofobia del Vate provvide l’amicizia con il diplomatico e poeta britannico sir James Rennell Rodd, che dal 1908 al ’19 servì come ambasciatore del Regno Unito a Roma. Questa pagina sorprendente e inedita della biografia del Comandante viene alla luce soltanto ora, grazie all’emergere di un importante documento, in possesso del collezionista svizzero Giovanni Maria Staffieri. Si tratta di una lettera, datata 4 dicembre 1917, che il poeta soldato scrisse a Rennell Rodd. Dal contenuto della missiva, apprendiamo innanzitutto che è esistito un carteggio tra le due personalità. Ma negli Archivi del Vittoriale, non si conserva alcuna lettera del diplomatico inglese all’Imaginifico. In compenso, la biblioteca dell’eremo gardesano contiene un volume di versioni d’antologia greca, Love, Worship and Death, edito a Londra nel 1916. La copia è dedicata dall’autore: «Al [sic] amico guerriero e poeta Gabriele D’Annunzio questo mio volumetto quale soffio di pace in tempo di guerra. Rennell Rodd. Roma, 1917». L’ambasciatore era una personalità eminente tanto in ambito letterario quanto nella vita pubblica del suo Paese. Nato nel 1858, durante gli studi oxfordiani aveva aderito al circolo di Oscar Wilde, il quale lo aiutò a pubblicare la prima raccolta di poesie, Rose Leaf and Apple Leaf, firmandone l’introduzione.
Entrato nel funzionariato di carriera del Foreign Office, ricevette vari incarichi di rappresentanza diplomatica nei diversi continenti, per poi divenire, nel 1928, membro della Camera dei Comuni, e, infine, nel 1933, Pari d’Inghilterra, con il titolo di primo barone Rennell. Era dunque questo l’uomo che fu incaricato, da Londra, di intessere relazioni con D’Annunzio, considerato una delle personalità centrali, in Italia, in grado di influire, in senso favorevole all’Intesa, nella condotta bellica della Penisola. L’amicizia ebbe il suo momento apicale proprio in coincidenza con l’annus horribilis, il 1917, terminato con la disfatta subita dal Regio esercito a Caporetto. Per mantenere l’Italia dentro il conflitto, di fronte allo sfacelo morale che infuriava nella nazione, la Gran Bretagna intensificò gli sforzi.
Gli agenti dei servizi segreti militari di Sua Maestà, vennero sguinzagliati nel Paese, per condurre un’azione di propaganda capillare, sostenendo finanziariamente gli organi di stampa più vicini alle potenze dell’Intesa: tra questi, “Il Popolo d’Italia”, di Benito Mussolini. Gabriele D’Annunzio, l’uomo che con la sua infuocata retorica nazionalista aveva trascinato l’Italia in guerra, era oggetto delle più assidue attenzioni dei terminali britannici che agivano nel Belpaese. Da quanto apprendiamo dalla lettera inedita (datata Padova, 4 dicembre 1917), D’Annunzio era giunto a Roma, per visitare l’amico inglese, dopo l’impresa di Cattaro. Nella notte tra il 4 e il 5 ottobre ’17, il Comandante aveva guidato un raid aereo sulla flotta navale austro-ungarica basata alle Bocche di Cattaro, nel basso Adriatico. Ma, durante la sua successiva sortita nella Capitale, il poeta non aveva trovato Rennell Rodd, per cui si era limitato a lasciare in ambasciata una sua missiva. D’Annunzio desiderava complimentarsi per «la delizia che mi avevano dato le Sue squisitissime versioni: la ghirlanda di apio e di viole».
Si può ipotizzare che si trattasse di alcune pagine della traduzione italiana di un’opera del diplomatico, edita a Londra nel 1913: The Violet Crown. Ma la missiva contiene soprattutto espressioni di entusiasmo e di gratitudine, per la Military Cross, l’ambitissima decorazione che il sovrano Giorgio V ha conferito al letterato di trincea: «È grande onore, per me, che S. M. il Re d’Inghilterra si degni di conferirmi la Croce militare nell’ora dolorosa e gloriosa in cui la nostra alleanza sta per essere perpetuata da un sangue che non trascolora». D’Annunzio rievoca il trauma e lo sconforto che in lui aveva generato l’onta di Caporetto: «Dopo giorni di cupa disperazione, non sostenuti se non dalla volontà di morire, ho riafferrata la mia fede e il mio coraggio». Il divino “Ariel” descrive, infine, in un’immagine simbolica, il tangibile soccorso dell’alleato che sta giungendo in forze sul fronte italiano: «la Sua lettera mi raggiunge nel campo di San Pelagio, mentre su la strada di Monselice passano file di solidi carri inglesi colmi di vettovaglie e di munizioni ».
Il Corpo di spedizione britannico entrò infatti in linea proprio il 4 dicembre ’17, e venne inizialmente dislocato nella zona di Asiago e nel Montello. Gli inglesi presero quindi parte alla battaglia decisiva di Vittorio Veneto, combattuta tra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre dell’anno successivo. Quasi subito, tuttavia, l’idillio, tra D’Annunzio e la Gran Bretagna, annegò in un mare di veleno. Fu infatti il poeta a coniare lo slogan della “vittoria mutilata”, che alimentò un vittimismo rancoroso per la modesta messe di territori che l’Italia raccolse ai tavoli della pace. Ma è, soprattutto, durante il biennio fiumano (1919-20), che D’Annunzio tuona contro gli egoismi delle grandi potenze occidentali, che negano il diritto all’annessione al Regno della città del Quarnaro. Per questa ragione, il poeta vuole trasformare Fiume nella capitale delle nazionalità oppresse. In un suo famoso discorso, Italia e vita, si scaglia proprio contro l’imperialismo britannico che domina sull’intero orbe terracqueo.
Nell’agosto del 1935, D’Annunzio rincara la dose, nel suo furore anti-inglese, componendo, in lingua francese, il Messaggio «Ai buoni cavalieri latini di Francia e d’Italia». Un estremo appello, rivolto all’amata nazione «sorella», affinché si distacchi dalle strategie sanzioniste dei circoli della Lega di Ginevra, impegnati a contrastare duramente l’avventura italiana in Etiopia. Terminata la sua fatica letteraria, così scrive a Mussolini: «Il mio vecchio odio fiumano per l’Inghilterra di Jonathan Swift rifiammeggia ». Il Vate è talmente senza freni, che il duce stesso (ancora impegnato in trattative con Londra e Parigi) ordina di impedire la diffusione della traduzione italiana del messaggio alla quale D’Annunzio sta ancora lavorando.