Lasciate perdere la filologia. Sì, certo: Dan Brown pasticcia come al solito. Nel «Codice Da Vinci» confondeva dipinti su tela con dipinti su tavola, tanto per dire; nel nuovissimo «Inferno» (che Mondadori ha mandato ieri in libreria) aggredisce l’opera di Dante con una disinvoltura che rasenta l’incoscienza. Fossero tutti qui, i difetti dello scrittore più venduto del mondo sarebbero abbastanza perdonabili. Il problema che Dan Brown pone è un altro, ed è decisamente più serio di qualsiasi tentazione snob.
Il che non impedisce di provare un brivido di raccapriccio quando, in un passaggio di «Inferno», si presenta come nozione poco diffusa il fatto che a un certo punto Dante sia riuscito a «scappare» dalla regione dei dannati, riuscendo così a visitare anche Purgatorio e Paradiso, evidentemente considerate alla stregua di tappe collaterali del tour ultramondano. Abbandonate le ambientazioni statunitensi del «Simbolo perduto», che nel 2009 non era riuscito a eguagliare il successo del romanzo precedente, Dan Brown torna a offrire ai suoi lettori gli scenari che più gli hanno portato fortuna, tratteggiando un’Europa sfacciatamente turistica e storicamente improbabile. Molta Italia, perché buona parte degli indovinelli che l’impavido iconografo Robert Langdon è chiamato a decifrare hanno a che vedere con Dante e con Firenze, dove il racconto inizia per poi spostarsi a Venezia e da qui a Costantinopoli. Tutte location già sfruttate dalla narrativa popolare dell’ultimo decennio, a volte con risultati molto più interessanti di quelli conseguiti qui da Dan Brown (le cisterne sotterranee di Santa Sofia, per esempio, si trovano già in un thriller cinematografico non privo di un certo décor: «The International» del 2009). Ma la ripetizione, in questo contesto, non è un limite. Al contrario, Dan Brown è perfettamente consapevole del bisogno di rassicurazione che contraddistingue i suoi lettori.
Ecco perché in «Inferno» torna, di prepotenza, il pregiudizio anticattolico che, già presente in «Angeli e demoni» (2000), deflagrò in tutta la sua evidenza con «Il Codice Da Vinci», un libro apparso nel 2003, mentre la Chiesa americana stava fronteggiando le conseguenze del gravissimo scandalo della pedofilia. Al centro del nuovo romanzo sta la minaccia di una pandemia scatenata da uno scienziato che forse – lascia intendere l’autore – pazzo non è e neppure malvagio. Il virus è concepito per rendere sterile un terzo dell’umanità, arrestando così la crescita incontrollata della popolazione mondiale: un dramma la cui soluzione è rallentata, una volta di più, dalla solita Chiesa cattolica, ostinatamente contraria a qualsiasi forma di contraccezione... L’«inferno» da scongiurare è dunque quello di un pianeta affollato di corpi come in un’incisione dantesca di Doré e su questo obiettivo, alla fine, tutti nel libro concordano, Langdon compreso. Qualche dubbio morale rimane, ma alla resa dei conti lo scienziato di cui sopra, inizialmente raffigurato come un fosco satanasso, assume le caratteristiche di un mistico capace di immolarsi (tramite suicidio, si capisce) per la causa del «transumanesimo». L’uomo che porta a perfezione se stesso, ovverosia il barone di Munchhausen che si salva dal precipizio afferrandosi per la parrucca. Una trovata talmente inverosimile che prima o poi Dan Brown la riciclerà in un suo best seller globali. Meglio: pandemici.