sabato 21 settembre 2024
Il viaggio in Oriente ha ricordato la necessità del dialogo in prospettiva mistica, nella quale l’unità prevale sul conflitto, senza relativizzare la verità ma ritenendola polifonica e sinfonica
Sinagoga, moschea e chiesa nella Casa della famiglia abramitica di Abu Dhabi

Sinagoga, moschea e chiesa nella Casa della famiglia abramitica di Abu Dhabi - Epa/Ali Haider

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Tra i momenti più significativi del recente viaggio di papa Francesco in Estremo Oriente si può a giusto titolo collocare l’incontro coi giovani di venerdì 13 settembre a Singapore. In quella occasione il vescovo di Roma così si espresse: «Una delle cose che più mi ha colpito di voi giovani, di voi qui, è la capacità del dialogo interreligioso. E questo è molto importante, perché se voi incominciate a litigare: “La mia religione è più importante della tua…”, “La mia è quella vera, la tua non è vera…”. Dove porta tutto questo? Dove? Qualcuno risponda, dove? [qualcuno risponde: “La distruzione”]. È così. Tutte le religioni sono un cammino per arrivare a Dio. Sono – faccio un paragone – come diverse lingue, diversi idiomi, per arrivare lì. Ma Dio è Dio per tutti. E poiché Dio è Dio per tutti, noi siamo tutti figli di Dio. “Ma il mio Dio è più importante del tuo!”. È vero questo? C’è un solo Dio, e noi, le nostre religioni sono lingue, cammini per arrivare a Dio. Qualcuno sikh, qualcuno musulmano, qualcuno indù, qualcuno cristiano, ma sono diversi cammini. Understood?». Queste affermazioni richiedono un approfondimento teologico alla luce del pensiero più recente, del dialogo fra le religioni e del contesto in cui sono state pronunziate.

Quanti hanno gridato allo scandalo del sincretismo, ritenendo il dettato di Francesco in discontinuità con il magistero ecclesiale, dimenticano la dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra aetate, nella quale si colgono gli aspetti positivi delle diverse appartenenze religiose, senza ovviamente rinnegare l’unicità del Cristo salvatore dell’umanità. Se tale salvezza in via ordinaria si attinge nella Chiesa cattolica, tuttavia le vie straordinarie attraverso cui Dio salva le persone sono note solo a Lui, come attesta, persino nell’ingiustamente ritenuto oscuro Medioevo, la Commedia dantesca: «Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna?» (Paradiso XIX, 79-81).

Così l’aquila al poeta che poneva la questione della salvezza dei non credenti. La giustificazione appartiene dunque all’orizzonte misterico, come nel titolo di un’importante e monumentale opera teologica, sulla quale ci siamo formati: Mysterium salutis, pubblicata nell’immediato post-concilio.

Nel suo recente discorso il Papa supera di gran lunga la vecchia modalità di interpretare il rapporto fra le religioni in termini conflittuali e secondo la logica binaria, sicché se la mia religione è vera le altre sono false, al contrario, come insegna il Vaticano II e fin dagli albori del cristianesimo aveva prospettato il martire Giustino, nelle altre appartenenze non siamo di fronte a falsità e bruttezze, ma a semi del Verbo, perché quanto di vero, giusto, bello si può rinvenire altrove ha comunque a che vedere col Logos. Alla stregua della Nostra aetate, nell’Università Lateranense, che ho avuto modo di servire per più di trent’anni, il teologo ceco Vladimir Boublik ha inaugurato quella che nel 1974 (cinquanta anni or sono) aveva denominato la teologia delle religioni. Un terreno minato che ha registrato anche momenti conflittuali e di grande difficoltà, quali quelli sperimentati dal gesuita Jacques Dupuis, col suo Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso (Queriniana 1997).

In queste prese di posizione come in quella espressa dal vescovo di Roma, si può percepire l’eco del De pace fidei di Niccolò Cusano. Il testo che porta questo titolo risulta ispirato dalla conquista di Costantinopoli da parte dei turchi, la cui notizia giunse in Occidente il 29 giugno del 1453, accompagnata da eloquenti descrizioni delle atrocità commesse dai turchi in quell’occasione. L’attualità del testo emerge con chiarezza dal tentativo di tenere insieme il dialogo fra le religioni e la tematica della pace. Il cuore della riflessione del Cusano si rinviene nella formula una religio in rituum varietate, che non va interpretata né nel senso del rimando ad una sorta di metareligione, come nella prospettiva di René Guenon relativa a quella che egli chiama “l’unità trascendente delle religioni”, non senza un certo sincretismo, né in senso propriamente convenzionale o confessionale. Già nel 1966, Wilhelm Hendrik van de Pol annunciava la fine del cristianesimo convenzionale, in un suo fortunato volume che porta questo titolo. Oggi dobbiamo constatare, per una serie di motivi che stanno davanti agli occhi di tutti e popolano i media, che il convenzionalismo cristiano e cattolico stenta a morire e si ripropone, non senza violenza, in posizioni integraliste e fondamentaliste di diversa appartenenza, rappresentate da quanti gridano al sincretismo piuttosto che mettersi in ascolto sincero di quanto afferma Francesco. Si tratta, per quanto riguarda il pensiero cusaniano del “cristianesimo universale”, ovvero etimologicamente “cattolico”, che, in quanto tale, non annienta le differenze, ma tende a comprenderle ed includerle. Così Paolo, cui il De pace fidei concede l’ultima parola, nel dialogo in cielo fra i sapienti delle diverse religioni, afferma che «[…] ammettendo una certa varietà, aumenterà anche la devozione, in quanto ogni popolo si sforzerà, con diligenza e zelo, di rendere più splendido il proprio rito, gareggiando con gli altri popoli per conseguire così maggior merito presso Dio e la lode del mondo». Infine, dopo aver esaminato i libri dei sapienti più insigni «si scoprì che tutte le divergenze riguardano piuttosto i riti che il culto dell’unico Dio». E ciò perché «tutti gli uomini, fin dall’inizio, hanno sempre presupposto un solo Dio e l’hanno venerato in tutte le forme cultuali, sebbene il popolo semplice spesso non avvertisse questo, perché distolto dal potere avverso del principe delle tenebre». Si tratta - come attenti commentatori hanno notato - di una prospettiva mistica, potremmo dire di inclusivismo mistico-speculativo, che si differenzia sia dall’esclusivismo sia dal pluralismo relativistico e nella quale l’unità prevale sul conflitto e la diversità, senza omologare o relativizzare la verità, ma ritenendola appunto polifonica e sinfonica, piuttosto che monotona e, pertanto, cacofonica.

Né deve scandalizzare il fatto che i papi, nel loro magistero e in tempi diversi, abbiano messo in luce aspetti differenti del mistero della salvezza, sottolineando, ad esempio con Giovanni Paolo II e l’allora cardinal Joseph Ratzinger, l’unità/unicità dell’evento cristologico rispetto al pluralismo indicato dal teologo belga Jacques Dupuis, con Francesco la pluralità e la necessità dell’incontro con l’esperienza religiosa soggiacente alle diverse appartenenze a fondamento del dialogo, onde evitare scontri e fondamentalismi che finiscano con l’alimentare i conflitti anche armati. Come ancora una volta direbbe il Cusano, si tratta del “paradosso” proprio del Cristianesimo (“coincidentia oppositorum” nel suo linguaggio) per cui l’unità non si contrappone alla pluralità, né viceversa fin nella fede nel Dio unitrino che Gesù di Nazaret ha rivelato.

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