Leon Wyczółkowski, “Kurgan”, 1894 - WikiCommons
Esattamente nei luoghi dove oggi corre la linea del fronte, cinquemila anni fa prendeva forma quella che sarebbe divenuta la nostra civiltà. Là, nelle steppe a nord del Mar Nero oggi divise fra Russia e Ucraina, viveva quel popolo di pastori nomadi che avrebbe dato la più profonda e duratura impronta alla nostra lingua: e quindi al nostro modo di articolare i concetti, di comprendere la realtà, di agire nel mondo. Nel lungo arco di alcuni millenni, dal VII al III a.C., il popolo che sarebbe poi stato detto indoeuropeo mosse da un capo all’altro di questa ampia area di steppa mettendo a punto una serie di innovazioni tecniche e sociali e soprattutto lo strumento più duttile e versatile di tutti, la parola. E li avrebbero poi trasmessi ai popoli che via via si sono staccati da quel nucleo originale, raggiungendo gran parte dell’Europa e dell’Asia.
Della loro parabola però si sono occupati a lungo solo gli specialisti di linguistica e nei manuali di storia trovano ancora poco spazio. Certo, la loro vicenda non ha nulla del fascino e dello stupore che sempre generano in noi le grandi civiltà monumentali del Vicino Oriente, dall’Egitto a Babilonia: erano poveri e sparuti gruppi di pastori sempre in movimento e la loro architettura si riassumeva in capanne di legno e pelli pronte per essere smontate e caricate sui carri per andare in cerca di nuovi pascoli. Eppure a loro dobbiamo l’impronta culturale primaria della nostra civiltà: parlano lingue indoeuropee quasi tutta l’Europa e buona parte dell’Asia. In Europa abbiamo tre grandi famiglie (romanza, germanica e slava) e gruppi minori (dal baltico al greco, dal celtico all’albanese); in Asia, sono indoeuropee le due grandi famiglie iranica (con il persiano) e indoaria (con l’hindi), più l’ormai estinta anatolica (con l’ittita) e tante altre (tocario, armeno, tracico, macedone…).
L’indoeuropeistica è nata come disciplina, strettamente linguistica, a inizio Ottocento in area germanica, grazie soprattutto al danese Rask e al tedesco Bopp. Nel corso dei decenni ha messo a punto quello che forse è tuttora il più esatto strumento delle scienze umane, il metodo comparativo, che ha consentito di ricostruire – sia pure in forma teorica – la lingua dei nostri antenati. La sfortuna storiografica degli Indoeuropei è stata, oltre a quella di non aver lasciato testimonianze archeologiche in grado di competere con la maestosità silenziosa e severa di una piramide, anche quella di non avere un nome: “Indoeuropei” suona male e astratto. Verso fine Ottocento e inizio Novecento si era usato il termine “ariano”, prima che il nazismo lo rendesse impronunciabile. Ma, soprattutto, la coscienza di questa comune radice era rimasta a lungo confinata nella cerchia dei linguisti.
Soltanto a partire dagli anni Cinquanta la lituana Gimbutas mise concretamente in relazione il popolo indoeuropeo con una precisa cultura archeologica, quella dei kurgan delle steppe. I kurgan sono sepolture coperte da tumuli che costituiscono modestissime alture nelle sconfinate pianure a nord del Mar Nero; sono stati creati fino all’epoca storica dagli ultimi discendenti dei nomadi rimasti in quei paraggi, Sciti e Sarmati. Ma a smuovere veramente l’interesse dell’archeologia nei confronti degli Indoeuropei è stato, sul finire degli anni Ottanta, l’inglese Renfrew. Quella della sua teoria, detta “ipotesi anatolica” in contrapposizione a quella “kurganica” della Gimbutas, è una curiosa vicenda intellettuale.
L’idea che la terra d’origine degli Indoeuropei fosse non la steppa russo-ucraina ma l’Anatolia oggi turca è stata pressoché unanimemente rigettata, così come l’originaria idea di Renfrew che l’indoeuropeizzazione dell’Europa sia sostanzialmente coincisa con la diffusione dell’agricoltura, nata appunto nel Vicino Oriente. Eppure proprio l’autorità di un grande archeologo come Renfrew ha acceso i riflettori anche di quella disciplina sulla questione della patria originaria. Una ventina d’anni fa in queste pagine intitolavamo col punto interrogativo ( Indoeuropei figli delle steppe?) una doppia intervista proprio a Renfrew, allora fresco vincitore del premio Balzan, e al linguista spagnolo Villar, autore del più fortunato e godibile saggio sull’argomento ( Gli Indoeuropei e le origini dell’Europa, il Mulino). Oggi quel punto interrogativo può essere tolto.
A fornire un’interessante sintesi della proficua collaborazione tra archeologia, linguistica e anche genetica, nella descrizione dei nostri antenati, è ora il libro di Harald Haarmann Sulle tracce degli Indoeuropei. Dai nomadi neolitici alle prime civiltà avanzate (Bollati Boringhieri, pagine 392, euro 17,00), che dà conto dei progressi degli ultimi decenni, mostrando come sia possibile associare un insieme di culture archeologiche a successive fasi di sviluppo della lingua indoeuropea comune e, poi, dei vari gruppi linguistici che da essa si sono generati. Grazie a questi lavori gli Indoeuropei escono dalla fumosità della protostoria e acquistano caratteri concreti; siamo in grado di descrivere in modo realistico il loro modo di vivere e di concepire il mondo e perfino di riconoscere loro il merito di alcune innovazioni tecnologiche che sarebbero state decisive nella storia: dalla domesticazione del cavallo all’invenzione della ruota, con la quale costruirono prima i carri da trasporto e poi quelli da guerra che li avrebbero portati a imporsi agevolmente sulle più pacifiche popolazioni sedentarie dell’Eurasia già convertite all’agricoltura.
Sulle tracce degli Indoeuropei è uno strano libro. Assai convincente nell’ampia sezione che accosta linguistica e archeologia, paga poi però dazio a una serie di idiosincrasie culturali proprie del nostro tempo. Per esempio, il modello attraverso il quale gli Indoeuropei hanno imposto la propria lingua e cultura è stato quasi sempre quello dell’élite militare dominante su una popolazione agricola numericamente maggioritaria. Un modello “colonialista” oggi poco apprezzato: e Haarmann, quasi contraddicendosi, si sforza in gran parte delle pagine che dedica alle vicende dei singoli gruppi linguistici di mostrare quanto in realtà le popolazioni pre-indoeuropee abbiano agito, con il loro retaggio culturale, ideale e tecnologico, sui nuovi dominatori. Che tutti i popoli storici, dai Greci agli Indiani, dai Germani ai Persiani, siano frutto di ibridazioni e contaminazioni culturali è indubbio. Tuttavia la scelta di Haarmann finisce per mettere quasi tra parentesi il ruolo giocato da quelli che sono in fondo l’oggetto stesso del suo studio.
Lo stile di Haarmann è molto assertivo (se vogliamo, molto tedesco) e non è del tutto aiutato da una traduzione a tratti imprecisa e a volte perfino incompleta (Calcutta resta Kalkutta; i Campi Catalaunici dove nel 451 fu sconfitto Attila, nell’odierna Francia settentrionale, diventano «i campi della Catalogna»; «Le truppe di Alessandro Magno risalirono il fiume Gange fino alla foce»…). E poi un’altra stortura, sintomo di una tendenza sempre più diffusa nella produzione scientifica: lo sbilanciamento delle fonti. Non solo prevalgono quelle in lingua tedesca, come è naturale data la provenienza dell’autore, ma si registra anche una forte limitazione a quelle disponibili in lingua inglese, fino ad arrivare a ignorare quasi completamente la ricchissima tradizione della linguistica romanza: pochissimi i francesi, gli spagnoli, gli italiani citati, perfino nei capitoli dedicati alle lingue romanze. E dire che la nostra scuola glottologica non ha certo nulla da invidiare a quelle germanica o anglosassone, anzi.
Al netto di questi difetti, Sulle tracce degli Indoeuropei resta un testo di grande utilità per prendere coscienza di quel retaggio condiviso che anche nella nostra Europa di oggi stentiamo spesso a riconoscere, lasciandoci distrarre dalle divisioni che ci segnano: ma ciò che ci divide è sempre molto meno di ciò che ci unisce, e non solo per la comune radice linguistica.