Una sala della collezione permanente del Museo Nazionale della Montagna “Duca degli Abruzzi” di Torino - Museo Nazionale della Montagn
Nel 1874 il Club alpino italiano, allora giovanissimo, inaugurava sul Monte dei Cappuccini di Torino un’edicola dotata di cannocchiale attraverso cui osservare 450 chilometri dell’arco alpino. La “Vedetta Alpina” è la radice del Museo Nazionale della Montagna, che quest’anno festeggia così 150 di vita. L’istituzione conta un patrimonio di oltre 500mila beni, il grande al mondo su questi temi, e conta al suo interno la Biblioteca Nazionale del Club Alpino Italiano, l’archivio CISDAE – Centro Italiano Studio e Documentazione Alpinismo Extraeuropeo, la Cineteca e Videoteca Storica e il Centro Documentazione Museomontagna, che comprende l’Archivio alpinistico, il Fondo Iconografia, la Fototeca. Nato come un punto di osservazione del panorama, come spiega la direttrice Daniela Berta, nel tempo è diventato un osservatorio dei molti mondi che chiamiamo “montagna”: «Nasciamo come museo alpinistico, ora il nostro focus sono le terre alte, sotto tutti i punti di vista. Certo, è una trasformazione di sguardo e di approccio che si inserisce in quella dei musei in generale verso la loro missione».
Quello che riguarda la montagna è un più ampio cambiamento culturale?
«La montagna ha acquisito una nuova attenzione, favorita anche dalla ricerca di risposte alle dinamiche della vita contemporanea e dalla consapevolezza della crisi ambientale. Il turismo lento è fattore fondamentale di cambiamento, e quest’anno abbiamo abbiamo approntato un ricco palinsesto multidisciplinare incentrato sul tema del cammino come pratica di conoscenza e apertura ma anche di creatività. Inoltre, non si parla più solo di esperienza della montagna, ma anche di vivibilità. Ma soprattutto le terre alte sono un prisma dalle molte facce attraverso cui è possibile leggere i temi della contemporaneità: la sostenibilità ambientale e sociale, l’infrastrutturazione del territorio… Sotto molti aspetti ciò che accade in montagna è una anticipazione di quanto è destinato a manifestarsi a livello più ampio. Ci appoggiamo ai nuovi linguaggi come il design, dell’arte contemporanea, dell’architettura, ma anche alle scienze sociali, l’antropologia, la sociologia, per operare una decostruzione degli stereotipi che hanno sempre riguardato le terre alte e che sono anche rappresentati nella composizione stessa delle collezioni del museo. È molto interessante mettere in relazione quello che accade veramente in montagna e quello che è il nostro sguardo».
Perché la montagna appare essere un laboratorio molto più di altri contesti?
«Perché qui ogni fenomeno si sviluppa ed è percepito in modo più forte. L’ambiente è l’aspetto più evidente. Ma spesso in montagna ci sono le condizioni per sperimentazioni socialmente molto avanzate, mi riferisco alle problematiche legate all’istruzione e alla distribuzione dei servizi, alla base dello spopolamento di queste aree. Questa è una ricchezza che andrebbe sfruttata appieno».
Il museo come si è incaricato di raccontare tutto questo?
«Con un approccio interdisciplinare, al punto di rischiare di sembrare un po’ schizofrenici… Qui ora può trovare una mostra di arte contemporanea e una su Primo Levi. Non è solo una strategia rivolta a diversi tipi di pubblici, ma la possibilità di incrociare prospettive per offrire letture inedite. Tutto questo deve andare di pari passo con la valorizzazione delle nostre collezioni: forse non ci piace più molto la definizione di “giacimento”, ma un museo dovrà sempre rimanere anche un contenitore di memorie. La sfida è riuscire ad attualizzare la nostra missione, traducendo il significato della memoria storica nella lettura di quello che succede oggi e in una possibilità di visioni per il futuro»
È cambiato anche il pubblico in questi anni?
«Si è ringiovanito. Insieme a quello della montagna. Lo vediamo bene sui social. La pandemia ha dato una grande spinta alla fruizione della montagna e di riflesso del nostro museo, con una maggiore attenzione per le nostre attività. In questo ha aiutato molto la digitalizzazione delle collezioni e dell’offerta culturale. Avviato già prima della pandemia un processo di innovazione digitale, che ci ha consentito di arrivare pronti a offrire contenuti a distanza durante l’emergenza pandemica e poi di continuare il lavoro. Realizziamo campagne di digitalizzazione periodiche e mirate. È una parte di lavoro meno visibile, difficile da comunicare, ma fondamentale perché è la base su cui costruire a lungo termine la programmazione scientifica, espositiva, editoriale e didattica del museo».
Il visitatore cosa trova all’interno del percorso?
«Un racconto della cultura della montagna, non per aree geografiche o personalità ma per temi. Come per tutti i musei, le collezioni esposte sono una piccola percentuale: il nostro patrimonio somma mezzo milione di beni e documenti, ed è in continua espansione. L’esposizione permanente, purtroppo, è poco flessibile. Cerchiamo però di compensare con le mostre temporanee che ci consentono di esporre oggetti o documenti normalmente non visibili. Abbiamo però progettato nuove sezioni. Una è quella dedicata a Walter Bonatti – il museo ne conserva l’archivio, 200mila beni, ricevuto nel 2016. È l’unica personalità raccontata con uno spazio ad hoc nel museo: ci piaceva raccontare questa straordinaria figura perché veicola una serie di sfide e valori importanti ancora oggi. Di Bonatti raccontiamo la vita alpinistica, l’avventura verticale come lui la definiva, vissuta fino a 35 anni, e poi l’avventura orizzontale, la vita esplorativa da reporter per Epoca. Una seconda sezione, che inaugurerà il 28 marzo, e che a Bonatti si collega, sarà dedicata al K2, a 70 anni dalla spedizione, della quale il Museo conserva gli archivi, e che non racconteremo solo come vicenda alpinistica ma nell’intero contesto. La salita del K2 è stata una grande storia di riscatto nell’Italia del dopoguerra. Lo Stato italiano, insieme al Club alpino e al Cnr, ha sostenuto e lanciato la spedizione puntando sul potenziale di entusiasmo che avrebbe potuto trasmettere anche alla popolazione. Non è un caso che l’impresa ha avuto una enorme ricaduta sociale, registrata dalle centinaia di esercizi commerciali, dal bar alla lavanderia al cinema, intitolati alla vetta himalayana».
In un certo senso, il K2 è stata la nostra corsa allo spazio?
«C’è anche con una forte logica geopolitica, che racconteremo. Finita la guerra, il campo di battaglia senza armi tra le potenze si è trasferito anche sugli Ottomila, sentiti come nuova frontiera da occupare, segnando il primato. Anche per questo si parla di conversione in verticale del colonialismo. Con la conquista del suo unico Ottomila l’Italia riuscì a collocarsi stabilmente nel palcoscenico internazionale, in particolare sul fronte scientifico e tecnologico. Nell’allestimento noi vogliamo però anche raccontare le popolazioni locali, al di là dei portatori, delle quali si parla poco e che sono rimaste escluse da quel racconto».