Bosch, “Nave dei folli” (1494) - archivio
Una nave senza vela né timone, che naviga alla deriva verso un orizzonte vuoto, portando con sé un carico di umanità impazzita e intenta solo a saziare la sua voracità. È la Nave dei folli, l’olio su tavola eseguito nel 1494 dal pittore fiammingo Hieronymus Bosch e conservato al Louvre. Meno di 60 centimetri per 30 di legno dipinto, eppure un’opera fondamentale, in bilico tra Umanesimo e Rinascimento ma ancora oggi dannatamente attuale. Alla Nave dei folli era dedicato ieri a Gorizia un dibattito all’interno di 'èStoria', Festival internazionale arrivato alla XVII edizione e quest’anno dedicato alla 'Follia', nei luoghi in cui negli anni ’70 prese il via il sogno di Franco Basaglia. «In questo quadro è racchiusa la questione fondamentale della perdizione umana secondo Bosch - avverte Maurizio Ghelardi, ricercatore presso la Normale di Pisa, già consulente del Louvre e autore del saggio Follia e salvezza (ed. Mulino) -: per il pittore fiammingo la follia è prodotto del peccato e l’uomo di per sé è destinato a perdersi, o nei piaceri o nell’acquisizione di troppi beni». Basti guardare i volti deformi dei suoi folli, non preoccupati se nessuno governa la nave, bensì osceni nella loro zuffa a chi accumula di più. Intanto dall’acqua due figure nude, simili ai dannati di tante danze macabre, provano a salire sulla nave e chiedono briciole di quel banchetto vizioso, dal quale nessuno sarà mai saziato... «La tavola - spiega Ghelardi - faceva parte di un trittico e va vista accanto a un altro pannello che rappresenta La morte dell’avaro, un uomo che persino in fin di vita è tentato più dal demonio che gli offre ricchezze, che dall’angelo della salvezza ». A controbilanciare tale perdizione, c’è solo la flebile speranza dipinta sulla tavola superiore: un uomo che esce, sì, da una casa di malaffare ma resta incerto sui suoi passi, «non sa quale strada imboccare, e proprio questa incertezza apre uno spiraglio di libero arbitrio». È il 1494, sono gli anni in cui il mondo conosciuto perde i suoi limiti, mentre Lutero infrange l’unità cristiana e inaugura un lungo periodo di conflitti religiosi… Eppure la nave dei folli naviga placida verso una fine irriducibile e fa da contraltare «a ben altre navi, quelle dipinte sui soffitti delle chiese, simbolo evangelico di salvezza, come l’Arca che salva dal diluvio universale». Indipendentemente da giudizi estetici e stilistici, la Nave dei folli è «un’opera spartiacque perché tratta le immagini come forme filosoficamente orientate e drammatiche dell’esistenza umana». Nulla a che vedere, insomma, con la contemporanea pittura italiana, così rassicurante e idealizzata, delle Madonne di Raffaello e di Giorgione. Ma poi arriva il Seicento, le conquiste allargano il mondo e donano anche al concetto di follia una nuova luce, non più peccaminosa e oscura, ma persino saggia, fantasiosa, arricchente. «Com’è quella di don Chisciotte o di Re Lear», spiega Guido Paduano, ordinario di Filologia classica a Pisa e autore di Follia e letteratura (Carocci), in una carrellata che dalla pazzia dionisiaca delle Baccanti passa per la tragedia greca, fino ai giorni nostri. «Don Chisciotte di Cervantes impazzisce perché legge i romanzi cavallereschi e diventa lui stesso cavaliere errante: semplicemente vive in un tempo che non è più il suo. Il che dà al suo autore la possibilità di un gioco metalinguistico: così Cervantes fa rinascere un genere letterario scomparso». E la pazzia di don Chisciotte, come quella del Re Lear shakespeariano nel finale, è un’apertura conoscitiva, addirittura catartica. «C’è aderenza tra don Chisciotte e il messaggio evangelico - conclude Paduano -. È ricercato perché ha liberato tutti i galeotti, e lo ha fatto senza voler sapere cos’avessero combinato», in una sorta di nolite iudicare che rimanda la responsabilità del giudizio a Dio. «Se Don Chisciotte è pazzo, allora lo è ogni cristiano».