La stella della Nba e dei Golden State Warriors, Stephen Curry, 33 anni, recordman dei tiri da tre punti - Reuters
Quattro e tredici sono due numeri che non compaiono nei tabellini dei record di Stephen Curry. Ma dicono molto di più sul giocatore che è diventato il più forte di sempre nella storia del basket nel tiro dalla lunga distanza. “Quattro” come il capitolo e “tredici” come il versetto della Lettera ai Filippesi di san Paolo, il passo biblico amato così tanto dal fuoriclasse dei Golden State Warriors che ha voluto inciderlo sulle sue scarpe da gioco: «Tutto posso in Colui che mi dà la forza». ( Fil 4,13). Le cifre che invece lo consacrano nella leggenda di questo sport sono quelle maturate nell’ultima partita contro i Knicks tra le ovazioni del mitico Madison Square Garden di New York. Con il canestro da tre punti numero 2.974, Curry è diventato il miglior realizzatore di tutti i tempi in Nba per triple segnate. È riuscito a battere il record di Ray Allen pur disputando solo poco più della metà delle partite giocate dal vecchio primatista (789 contro 1300). A 33 anni, ma ancora nel pieno del proprio vigore, Curry allungherà questo record rendendolo difficilmente eguagliabile. Lui, che conserva sempre quella faccia da bambino, diventa spietato oltre la linea dei 7,24 metri (6,75 in Europa). Un vero artista di questo tiro, con una velocità e una meccanica di esecuzione presi in esame anche da studi scientifici. Quando la palla è nelle sue mani sembra uno scherzo far canestro da molto lontano mentre invece una volta era roba per specialisti.
L’introduzione del tiro da tre punti in Nba è del 1979: alle origini veniva guardato con sospetto dai puristi del gioco. Se oggi è diventato un’arma letale lo si deve soprattutto a fenomeni del calibro di Steph. Si è addirittura ipotizzato di aumentare la distanza, ma per Curry non cambierebbe molto visto che un quarto delle sue triple sono arrivate da oltre 8,22 metri (dati raccolti da The Athletic). E pensare che solo nel 2019 si è reso conto di aver giocato per anni con un difetto della vista, il cheratocono, una malattia della cornea. C’è chi lamenta una certa monotonia nel ricorso selvaggio alle “bombe” da tre. Il fenomeno dei Warriors però non si annoia affatto, basta guardare il sorriso stampato sul suo volto. Un giocoliere che ha abituato il pubblico a numeri da illusionista sin dal riscaldamento. È ormai un rito, il saluto con un tiro dal tunnel degli spogliatoi quando scende in campo. E fanno impazzire gli spettatori i numeri da prestigiatore anche con due palloni prima di ogni gara. Un marziano che con un fisico non certo da gigante (190 centimetri scarsi per 80 kg) ha reso la Nba un pianeta meno irraggiungibile. La strada non è preclusa per nessuno ma a patto di percorrerla con la stessa tenacia di Curry. Con i calli nelle mani di 2mila tiri a settimana, oggi è diventato un’icona del basket mondiale e uno dei migliori 75 giocatori della storia della lega statunitense, ma non è stato affatto facile imporsi. Pochi erano disposti a scommettere su quel ragazzo gracile ed esile a cui diversi grandi college rifiutarono persino la borsa di studio. Anche tanti infortuni prima di esplodere definitivamente con i “guerrieri” della baia di San Francisco.
I Warriors con lui sono diventati la squadra che ha segnato l’ultimo decennio della Nba. Con Golden State, Curry ha vinto tre titoli e frantumato tanti record individuali. Poi però nel 2019 qualcosa si è rotto come dimostra anche il libro del giornalista americano Ethan Sherwood Strauss tradotto da poco anche in italiano: I Golden State Warriors. La macchina della vittoria (66thand2nd, pagine 220, euro 17). La sconfitta in finale contro Toronto, l’infortunio di Thompson e soprattutto l’addio polemico di Durant hanno messo fine tra veleni e gelosie al ciclo vincente della «miglior squadra mai assemblata» così la definisce Strauss. E la frattura della mano di Curry a inizio 20192020, che l’ha tenuto fuori per un anno, è stata la pietra tombale. Dopo però due stagioni senza nemmeno raggiungere i playoff, i Warriors sono tornati a far paura. Grazie alla rinascita del suo recordman, leader mai domo, capace di trovare energie insospettabili fuori dal parquet. Si sa infatti che i capisaldi della sua esistenza sono la famiglia e la fede. Steph è figlio d’arte, suo padre Dell è stato un ottimo giocatore Nba negli anni Novanta e adesso anche suo fratello Seth è titolare fisso nel campionato americano coi Sixers. Steph Curry non ha alle spalle un’infanzia difficile, è cresciuto maturando i principi che gli sono stati trasmessi e su di essi ha fondato anche il suo matrimonio.
Sposato con Ayesha Alexander, conosciuta in chiesa da ragazzino, oggi è papà felice e orgoglioso di tre bambini. Non è un mistero il suo credo cristiano evangelico. Quel dito al cielo quando entra in campo è per ricordare a tutti per chi gioca: «La gente deve sapere perché sono chi sono, per il mio Signore e Salvatore». Una fede da vivere tutti i giorni: «Devi trovare il modo di essere esempio per gli altri, anche nel modo in cui cammini, da come parli, devono vedere che c’è qualcosa di diverso in te, come ti prendi cura di te stesso. Così dovrebbero essere i discepoli di Gesù». Un dono da condividere. Qualche anno fa confidò che con alcuni compagni di squadra aveva creato una chat di gruppo per scambiarsi versetti della Bibbia e approfondirli insieme. Su una seconda linea di scarpe è allora spuntato un nuovo passo questa volta tratto dal libro dei Proverbi (27, 17): «Il ferro si aguzza con il ferro e l’uomo aguzza l’ingegno del suo compagno». Nessuna meraviglia allora quando nel 2016 ricevendo il premio di miglior giocatore Nba disse: «Non posso farvi capire del tutto quanto sia stata importante per me la fede e quanto questa abbia inciso sul mio modo di giocare e su chi sono. Sono stato benedetto, e ringrazio Dio per essere qui dove sono».