Benedetto Croce - WikiCommons
Sei anni fa, per il centocinquantenario di Benedetto Croce (1866-1952), Giuseppe Galasso raccolse le pagine che meglio corrispondono al ritratto autobiografico dello scrittore che più di tutti, nel XX secolo, aveva rappresentato l’Italia e l’Europa nella prospettiva della tradizione umanistica greco- latina, del suo concetto di democrazia tradotto nel modello liberale, del pensiero che ne animava la civiltà: era lo svolgersi storico ideale dove la sua forza creativa si imponeva per lo straordinario atto di una volontà che alzava le ali verso l’“Universale”. Ora questo lavoro di Galasso esce postumo, con la prefazione di Piero Craveri, in un volumetto edito da Adelphi, a firma di Benedetto Croce: Soliloquio e altre pagine autobiografiche (pagine 124, euro 12). Non basterebbe citare i riconoscimenti di Thomas Mann, Einstein, Schlosser, perché merito e fama di Croce erano quasi popolari, e si estendevano dall’America al Giappone. Ciò che ci stupisce è la nascita quasi miracolosa di Croce filosofo in una costruzione di sé dal trauma e per tutt’altra strada, quella della storia. Aveva diciassette anni quando nel 1883 il terremoto di Casamicciola lo caccia dall’Eden; morti i genitori e la sorella, lui fracassato. Lo stordisce il trapianto a Roma tra i cugini paterni Spaventa, mentre segue Labriola. Lo salvano Archivi e Biblioteche: abissi sterminati della memoria anestetizzano l’angoscia acuta e intollerabile, die Sorge, che impedisce a Faust di vivere. Come per Manzoni, gli archivi sono ricolmi di storie reali e avventurose che restituiscono il vero, da intrecciare insieme alla letteratura e alla poesia: storia e fantasia da mettere insieme corpo su corpo, in riflessione e revisione di sé costantemente riprese, tanto che non potrà mai parlare di “sistema” – come parlava Leopardi per sé – ma di «serie di sistemazioni ». Lo afferma consapevole nel 1915, nel Contributo alla critica di me stesso, che Contini considera suo «culmine espressivo » e «intellettivo»: «autobiografia mentale» in cui storicizza se stesso, secondo la necessità di tradurre in pratica morale il pensiero e l’azione, perché siano costantemente rafforzati e purificati. Dapprima ricerca il vero sé. Si analizza, con una penetrazione psicologica degna dell’arte goethiana di distinguere e riunire; e si rimodella morendo come individuo, adeguandosi alla Realtà, e al Tutto. Un processo di trasformazione doloroso, secondo lo Stirb und werde di Goethe, di cui dà conto in modo mirabile nella Filosofia della pratica, anche sulla scorta di Vico. Definendo il desiderio come «volontà dell’impossibile», di «ciò che non si può e non si deve volere», richiama a quell’unità di riflessione e contemplazione. Essa diventa adeguazione alle forze che agiscono in noi dalla Realtà «che ci genera e ne sa più di noi, di quella Realtà, che le religioni intravedevano chiamandola Dio, Padre e Sapienza infinita». Soltanto attraverso il coraggio di un’immaginazione grandiosa che riporta in luce un’armonia provvidenziale, che trasforma anche il male e il dolore in bene, secondo le antiche speranze, o credenze, o illusioni, Croce può pensare a un Tutto - scrisse Emilio Cecchi - come un «gran palazzo d’idee», del quale mura le porte. Eppure in questo palazzo-carcere dell’Universale può trovare per sé la coerenza con l’agire nelle lacerazioni e nel contingente: la calma, di cui ha bisogno per lavorare. Nella sua impareggiabile conoscenza dell’autore e delle sue opere, Giuseppe Galasso ha distillato le gocce dell’antologia che Croce avrebbe potuto offrire a Raffaele Mattioli, se avesse ceduto alla sua richiesta. Ad alcune di queste pagine diede voce Toni Servillo al Teatro Bellini di Napoli, in una serata che il nipote Piero Craveri definisce «memorabile». Craveri osserva la necessità di legami tra «origine e sostanza» propria di Croce nel presentarsi da quando, alla soglia dei 50 anni, offrì una valutazione del proprio percorso nel Contributo alla critica di me stesso, in uno dei momenti cruciali della sua vita: dopo il matrimonio con Adele Rossi e la rinascita di sé come pater familias. Deflagrava la prima guerra mondiale, a cui era contrario. Ma poi non poté non parteggiare per l’Italia patria, che il Risorgimento aveva rifondato. Nel 1920 sarebbe stato chiamato da Giolitti alla riforma dell’Istruzione pubblica. Per complesse ragioni, movimenti sociali, spinte internazionali travolgenti, una monarchia inadeguata, errori tattici in un sistema parlamentare fragile, il centrismo e il trasformismo di Giolitti sarebbe stato battuto anche per l’opposizione del Partito popolare, lasciando campo a Mussolini, la cui forza politica gli sembrava, «poco accortamente», strumentale e transitoria. Croce osservava, e «dopo un primo momento di non partecipazione e di riserbo », nel 1924, mentre Sturzo andava in esilio, ruppe con Gentile, pubblicando il 1° maggio 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti. L’autorevolezza di Croce impedì a Mussolini persecuzioni drastiche. Seguirono anni privati segnati dal lavoro, opponendosi a tutte le leggi che abolivano la libertà d’associazione e di stampa, del tribunale speciale, della pena di morte, ai Patti Lateranensi non per principio ma per l’opportunismo dello Stato fascista, e via via fino al rifiuto di giurare obbedienza alle leggi razziali; poi la guerra, la caduta di Mussolini, il governo Badoglio, la tessitura per il nuovo governo, dalla villa di Sorrento e da Capri, che i Taccuini di guerra raccontano, nel più vero romanzo, dove ha parte il genero Raimondo Craveri, spericolato agente segreto arruolato da Peter Tompkins di Oss, che in missione dell’Ori da lui fondata, con i gommoni dal porto di Brindisi sbarca di notte sulla costa adriatica, per il fronte della Linea gotica. A ogni quadro saliente questo libro dà voce, fino al Soliloquio, pagina finale di una vita che aveva voluto essere sempre preparazione della morte, la quale giunge come una interruzione del nostro compito, «perché in ozio stupido essa non ci può trovare». Se gli antenati poggiavano su terre e loro istituzioni, Croce trova la sua nuova terra nella storia pensata. Di lì, da quell’infinita unità di vivi e morti, Croce impara l’universale, a mettere da parte l’individuo, a superarlo. Poteva venirne sommerso, e invece gliene viene pace, e una forza immensa. L’universale è una forza: un ultimo simbolo - aulico, democratico, e supremamente aristocratico – tra i simboli italiani che comprendevano ogni strato della società, in un sogno armonioso nato dalla più profonda empatia per tutto ciò che è vivente, uomini, animali, natura, paesaggio, storia. Croce non fu soltanto un loro supremo difensore. Ma un meraviglioso paradosso, nella storia della filosofia e della cultura. Forse la più complessa unità fatta di contraddizioni, che ne moltiplicano la grandezza di scrittore.