sabato 23 aprile 2022
Come la risposta di Roma a Lutero ha inciso su cultura e società? In due volumi Prosperi, Firpo e Alonge mostrano come l’idea di cambiamento maturata a metà ’500 nella Penisola ridisegnò il mondo
Anonimo, “Il concilio di Trento”. Berlino, Deutsches Historisches Museum

Anonimo, “Il concilio di Trento”. Berlino, Deutsches Historisches Museum - Archivio Avvenire

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La domanda sul passato, sul chi siamo e perché siamo così è il campo di lavoro della storia. Provare a cogliere in ciò che è accaduto le tracce genetiche di una condizione presente è uno sforzo che, fuori da tentazioni deterministiche, guida da secoli la curiosità dell’uomo quando volge lo sguardo a chi lo ha preceduto. Da Machiavelli a Manzoni, scrittori, studiosi e intellettuali si sono interrogati su quanto la religione abbia influito sulle vicende della società e su come l’identità dell’Italia, per venire a noi, dipenda dall’azione e dalle decisioni di un’istituzione ingombrante e autorevole allo stesso tempo: la Chiesa di Roma.

Per chi ha descritto il percorso culturale della Penisola, un passaggio più di altri è risultato importante e "periodizzante": la cesura determinata da Lutero e, nel nuvolo di eventi che ne seguirono, l’impianto dogmatico, morale e rituale stabilito dal Concilio di Trento. Per singolare coincidenza, sono di queste settimane due libri che, da angolature diverse e complementari, consentono di capire quanto la Riforma (protestante e cattolica) e la Controriforma siano snodi dirimenti per l’evoluzione culturale e sociale degli italiani.

Il primo testo è quello pubblicato da Adriano Prosperi, studioso che ha affrontato la questione in più sedi, a partire da un lavoro che ha fatto scuola come Tribunali della coscienza. Il volume è significativamente intitolato Una rivoluzione passiva. Chiesa, intellettuali e religione nella storia d’Italia (Einaudi, pagine 430, euro 34).

Potrebbe sembrare una diminutio, quasi un voler attutire lo sforzo normativo compiuto dal Concilio di Trento per dare corpo e forma a una Chiesa (e a una società) che si doveva rinnovare. Non è così. Prosperi richiama i due precedenti che lo hanno ispirato. Da un lato la lezione di Benedetto Croce, con il suo elogio, moderato ma non per questo meno significativo, del cattolicesimo di Roma e dei gesuiti come involontari o inavvertiti garanti di un’unità italiana ante litteram. Se l’unificazione della Penisola si era dovuta scontrare con il potere politico dei papi, qualcosa si doveva tuttavia anche a loro. «Qualche motivo di storica gratitudine», diceva Croce, legava gli italiani ai rigori della Controriforma, senza la quale «le faville delle divisioni religiose» sarebbero dilagate anche nella Penisola. Condivisibile o no, il ragionamento di Croce - spiega Prosperi - coglieva un punto importante, seppure riepilogandosi in un giudizio negativo che non poteva conferire alla Controriforma il respiro ideale del Rinascimento o della Riforma protestante. Dunque, un passaggio reattivo (come implicito del resto nella categoria di Controriforma); ma di portata tale da lasciare un’impronta forte, indelebile e, sotto molti punti di vista, plasmante.

Le parole di Croce vengono quindi combinate con la lezione di tutt’altra personalità, quella di Gramsci. Nei suoi Quaderni definiva il Risorgimento come «rivoluzione senza rivoluzione» o, come recitava una nota a margine, una «rivoluzione passiva», in cui le masse non erano state coinvolte e le dinamiche sociali non era state scalfite. È appunto questo concetto che Prosperi propone per rileggere la Controriforma: essa fu una rivoluzione passiva, fu cioè un processo dove i deboli - il popolo analfabeta, i contadini, le donne - non furono contemplati con un coinvolgimento culturale («sentire messa» era cosa diversa dall’ascoltare e capire, per usare un’immagine di Prosperi). Ma, fu anche un passaggio epocale, in cui il chierico, ovvero il parroco, si sostituì sempre più al laico, facendosi garante e sorvegliante della corretta applicazione di una religione codificata da Roma e mediata dai vescovi a livello locale. Attraverso i culti, le devozioni, le predicazioni, le immagini, e così via, cambiava la vita quotidiana dei poveri e dei semplici, accompagnati, quasi inconsapevolmente, verso una nuova normalità. Non una "rivoluzione" tout court, come quelle che, nella storia, investono le masse conferendo loro un altro protagonismo, eversivo, sovversivo e dirompente: una rivoluzione passiva. In questa cornice, che ha il sapore di un bilancio, il lettore è accompagnato nella rilettura di otto corposi saggi in cui Prosperi ha affrontato il tema, declinandolo ora sugli intellettuali, ora sui vescovi, sulle strutture ecclesiastiche o sulle vittime.

Come dicevamo, colpisce che questo libro sia apparso pressoché in contemporanea a un altro volume scritto da Massimo Firpo, tra i più autorevoli storici del Cinquecento religioso e Guillaume Alonge. La ricerca si concentra in questo caso su un libretto del XVI secolo (di cui lo stesso Prosperi nel 1975 si occupò con Carlo Ginzburg, con una proposta che innovò profondamente sul piano metodologico): si tratta del Beneficio di Cristo, un folgorante testo che, come rivela il sottotitolo dell’omonimo studio firmato da Firpo e Alonge, può essere elevato a cifra interpretativa dell’Eresia italiana del ’500 (Laterza, pagine 400, euro 29).

Siamo lontani dalla rivoluzione passiva di cui si è detto: la collocazione cronologica è in un momento precedente, in cui la "rivoluzione" è in gestazione e sta di fatto vedendo la luce. In questa fase, nei cruciali anni Quaranta del XVI secolo, in molti sperano ancora in un esito diverso da quello che si verificherà: nel contesto della Riforma italiana - l’insieme eclettico e originale di proposte dottrinali che si generarono nella Penisola dopo Lutero - si elaborano pagine che, tra le altre cose, mirano a orientare il lavoro del concilio di Trento e dei suoi partecipanti.

Firpo e Alonge, con una prosa che restituisce la vitalità di quegli anni, riprendono in mano i nuovi, abbondanti, indizi sulla nascita del volume per capire quali furono i suoi obiettivi, i suoi autori, i suoi destinatari e che cosa svelano di una stagione inedita e tormentata. Un aggiornamento necessario che evita volutamente di creare etichette, per seguire le vicende del libro, elevandolo ad attore principale. È lui, il Beneficio, il grande ricercato degli inquisitori; ed è di nuovo lui il grande ricercato dai lettori. A leggerlo sono sia gli esponenti dell’elite, sia i semplici che la rivoluzione passiva avrebbe escluso.

La spiegazione - come mettono in chiaro Firpo e Alonge - è facile: il libro, in apparenza, è capace di dare una risposta univoca alle inquietudini e ai dubbi che gli sconvolgimenti religiosi dell’epoca seminavano a piene mani. Il suo messaggio è quello dell’infinita misericordia di Dio che, attraverso il sacrificio di Cristo, regala a chiunque abbia fede la salvezza. Per il resto, nessun accenno di polemica esplicita contro la Chiesa e i suoi dogmi: una proposta in positivo; ma, proprio per questo suo smalto falsamente neutrale, guardata con sospetto dalle autorità religiose e inquisitoriali.

L’indagine di Firpo e Alonge ne segue il percorso, componendo un puzzle in cui le tante, talvolta confuse, tessere del mosaico trovano il loro posto. Ne esce un affresco convincente e documentatissimo su un «dolce libriccino», meditato da cardinali, ciabattini, ambasciatori e gioiellieri, in grado di abbattere barriere sociali e culturali, e soprattutto lasciare aperta la porta a evoluzioni imprevedibili.

I due libri mostrano una volta di più quanto i decenni centrali del Cinquecento costituiscano un passaggio sensibile. E quasi come storie parallele, raccontano dello stesso evento: un concilio che per qualcuno poteva aprire a un messaggio di salvezza e di concordia; per altri doveva radicare un’identità e, in sostanza, stabilire dei confini. Ad accomunare le due analisi è l’idea di un’Italia in cui la presenza del papato imponeva cautele e un passo «non rivoluzionario»; un passo più silenzioso che, tuttavia, non mancò di incidere sui destini di un popolo e, forse, di una religione.

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