Giotto, "La Resurrezione di Lazzaro", Padova, Cappella degli Scrovegni
Giotto lo presenta così, nell’affresco della Cappella degli Scrovegni a Padova: cadaverico e impacciato dalle bende, del tutto incredulo. È Lazzaro dopo quello che è ritenuto il più grande miracolo di Gesù, la risurrezione. Altrettanto farà secoli più tardi l’artista americano Jacob Epstein, in una scultura conservata all’università di Oxford: il fratello di Marta e Maria è totalmente avvolto dai teli funebri, con gli occhi chiusi, inconsapevole di quanto gli è accaduto, quasi intento a rimpiangere di essere uscito dalla tomba. Van Gogh da parte sua – l’opera si trova al Museo d’Orsay a Parigi - ha fissato la scena in termini più luminosi, mentre Tintoretto, in un quadro rivenuto pochi anni fa nella casa dei gesuiti di Wernersville, in Pennsylvania, fa intuire appieno la risurrezione del corpo di Lazzaro, tutto piegato verso Gesù come le sorelle e gli altri che partecipano all’evento. Sono numerose e dai toni differenti le opere dedicate al miracolo, come testimonia James Martin nel libro “Lazzaro, vieni fuori!”, che esce domani (Lev, pagine 400, euro 25,00) con la prefazione del Papa. Il gesuita americano, molto noto in Usa per le sue opere di taglio teologico nonché per il suo apostolato nel mondo degli Lbgtq+, spiega come si è appassionato alla vicenda dopo aver visto in tv il Gesù di Zeffirelli, all’età di 16 anni: «Giovane com’ero, alla ricerca di certezze», racconta. Allora abitava a Filadelfia e i genitori gli fecero vedere lo sceneggiato del regista fiorentino: rimase colpito dalla calma di Gesù di fronte alla morte, dalla sua sicurezza nella propria capacità di cambiare il corso delle cose. Così, durante i pellegrinaggi svolti in Terra Santa, più volte egli si è recato a Betania, oggi El Eizariya, cittadina situata nei territori palestinesi, non lontano da Gerusalemme. L’etimologia del nome della località potrebbe voler dire Casa dei poveri (ma anche Casa dell’afflizione o Casa dei datteri), a significare che probabilmente ospitava un ricovero per i malati. C’è chi ipotizza per i lebbrosi, anche perché Lazzaro, o meglio san Lazzaro, a partire dall’XI secolo divenne patrono e protettore contro le epidemie della lebbra e della peste. Da lui viene l’uso del termine "lazzaretto". Non a caso Martin rileva che l’opera ritrovata di Tintoretto fu dipinta subito dopo il diffondersi della peste a Venezia. La sua è davvero una raffigurazione singolare e insolita del miracolo: Lazzaro è appena stato portato fuori dalla tomba e appare stremato: «È crollato, sfinito dalla malattia, dalla morte straziante e dalla risurrezione». I suoi occhi fissano il Messia, così come quelli delle due sorelle, anch’esse esauste per la prova che hanno affrontato: “Guardano Gesù con un misto di dolore e di sollievo”. Non solo gratitudine verso Gesù esprime Lazzaro, riconoscenza per questo gesto di amicizia infinita, ma anche incredulità per essere tornato in vita. Quasi sgomento.
Analogo sentimento emerge in due drammi, Calvario del poeta irlandese William Butler Yeats e Lazzaro e la sua amata del poeta libanese Kahlil Gibran: il miracolato si guarda anzi indietro e sembra preferire restare nel sepolcro. Si legge nell’opera di Yeats: «Ma ora accecherai di luce la solitudine / che la morte ha generato; ora disturberai quell’angolo / dove avevo pensato di poter stare al sicuro per sempre». E l’autore della notissima raccolta Il profeta si chiede: «Perché, perché, perché mi hai chiamato dal cuor vivente dell’eternità a questa morte da vivo?». Nella sua specificità assoluta, il racconto di Lazzaro assume qui un significato universale: quando ci accade qualcosa di inedito e di straordinario, facciamo fatica a staccarci dal passato e ad abbracciare la nuova vita che ci si presenta davanti. «Quando esci fuori – commenta Martin – è naturale che ti senti instabile. Sei stato nell’oscurità per così tanto tempo che la luce ti parrà strana. La tomba sembra sicura e l’esterno appare pericoloso». Ancora una volta è la libertà umana ad essere interpellata: «Lazzaro deve prendere una decisione: ascoltare la voce di Gesù, alzarsi dal letto di pietra su cui giaceva e uscire fuori coperto dai suoi teli funebri, chiedendosi che cosa lo aspetti; oppure rimanere nella sua tomba. Lazzaro non è passivo: deve agire. Lazzaro ha una scelta». Lo segnala anche papa Francesco nella prefazione: «Leggendo la dettagliata analisi di James Martin, si tocca con mano il significato profondo del gesto di Gesù di fronte a un morto “morto”, che emana cattivo odore, metafora della putrefazione interiore che il peccato genera nella nostra anima. Gesù non ha timore di avvicinarsi al peccatore, a nessun peccatore, anche il più imperterrito e sfacciato, Lui ha solo una preoccupazione: che nessuno si perda». E cita un passo di Cormac McCarthy per concludere: «Il mestiere di Dio è perdonare».
Il libro di Martin si fa a volte minuzioso, anche a livello teologico, come quando prende in esame alcune teorie che hanno negato l’esistenza storica di Lazzaro, per giungere a screditarle sulla scorta degli studi dei più importanti esegeti; o come quando sembra far propria l’ipotesi che il discepolo prediletto di Gesù non fosse Giovanni ma proprio Lazzaro; ancora, quando si chiede come mai nessuno fra Lazzaro, Marta e Maria fosse sposato: forse erano lebbrosi, o lo erano stati? Pagine commoventi dedica a Marta e Maria: «Sono tra le donne più importanti dei Vangeli. Forse solo Maria, la madre di Gesù, Maria Maddalena e la “donna al pozzo” sono rappresentate con altrettanta sensibilità». Martin nega la contrapposizione fra vita attiva e vita contemplativa con cui spesso le due figure sono state interpretate, come se Gesù avesse voluto screditare l’importanza del fare. Ben esprime la sintesi fra azione e contemplazione un quadro di Vermeer, Cristo in casa di Marta e Maria. Ancor più, il racconto del miracolo di Lazzaro le vede protagoniste di primo piano, entrambe testimoni della fede in Gesù. Martin ha anche buon gioco nel rilevare la predilezione di Gesù per le donne, che sempre sono viste sotto una luce positiva e in relazione stretta con lui: «Non viene mostrata alcuna donna che gli resiste, che non gli crede o che lo tradisce, e ciò in netto contrasto con la maniera con cui vengono ritratti molti uomini». Non solo, non sono mai descritte in modo convenzionale.
Ma non vi sono argomenti inerenti la vicenda di Lazzaro che non siano esaminati: dal pianto di Gesù, testimonianza della sua piena umanità e divinità, dato che «i cristiani non credono in un Dio apatico o insensibile», a quanto avvenuto dopo il miracolo. Qui la storia si mescola alla leggenda. Il Vangelo di Giovanni, unico che ci parla del miracolo, porta solo due elementi: che i giudei – purtroppo spesso indicati in maniera sprezzante dall’evangelista – stavano progettando di ucciderlo e che Lazzaro sia stato presente a una cena con Gesù e le sue sorelle. Per alcuni studiosi è molto probabile che egli sia stato messo a morte com’era accaduto a Gesù. Poi, vi sono varie tradizioni, secondo una delle quali, di origine orientale, sarebbe fuggito a Cipro per diventare vescovo di Kition, attuale Larnaca, dove sarebbe morto e sepolto. Sul luogo della sua tomba sorge la chiesa di San Lazzaro. Altri raccontano che le sue spoglie vennero trasferite a Costantinopoli e trafugate dai franchi nel XIII secolo per essere portate a Marsiglia. Il che coincide in qualche modo con la tradizione occidentale, che vuole Lazzaro, Marta e Maria giungere nella città francese, di cui Lazzaro sarebbe stato il primo vescovo. Nel X secolo le reliquie furono portate a Autun, dove sorge una maestosa cattedrale a lui dedicata. Come che siano andate le cose, la storia di Lazzaro ci parla ancor oggi e ci inquieta, come hanno scritto tanti autori non ancora citati, da Kazantzakis a Lagerkvist a Toibin fino a un inaspettato David Bowie, che in una delle sue ultime canzoni, Lazarus, scrive: «Guarda qui, sono in paradiso / ho cicatrici che non si vedono». Il video di accompagnamento mostra il cantante sdraiato sul letto, pallido ed emaciato, con la testa avvolta da una benda. Proprio come Lazzaro.