L’inverno del 1955 a Montgomery (Alabama) per sempre rimarrà quello del “boicottaggio dei bus”. Una straordinaria afroamericana, Rosa Parks, passerà alla storia per il “gran rifiuto” all’uomo bianco che gli intimava di cedergli il posto, in quanto donna di colore. L’inverno di dieci anni dopo, a El Paso ( Texas), profondo Sud degli Stati Uniti, il bianco Don Haskins, il coach della squadra universitaria di Texas Western, intraprese quella che al suo direttore parve una “mission impossible”. Con pochi dollari in tasca, il 35enne ex allenatore delle formazioni di basket femminile (nei licei di Benjamin e Hedley) perlustrò in lungo e in largo il Paese alla ricerca di “talenti neri”, classe 1943, per la rifondazione della sua squadra. Il 21 febbraio del 1965, a New York, era stato assassinato Malcom X, uno dei maggiori difensori dei diritti civili della comunità afroamericana, l’uomo che aveva illuminato il cammino del futuro “Re dei pesi massimi”, Mohammed Ali (il Cassius Clay oro olimpico a Roma ’60). E mentre Don Haskins setacciava tutte le palestre degli Usa, il Nobel per la pace Martin Luther King avanzava con le sue marce di protesta non violenta e lo speranzoso I have a dream (gridato fino alla morte: venne assassinato a Memphis il 3 aprile del 1968) che condusse al “Voting Rights Act”: la legge che riconosceva il diritto di voto ai neri d’America. Fu sull’onda emotiva di quello spirito di rinnovamento universale che il coach della Texas Western venne folgorato dall’idea di allestire una squadra nella quale accogliere quei ragazzi neri che – come lui – non avevano ancora ricevuto la “big chance”. Alla Summer League del ’65 gli bastarono due minuti di match – tanti ne concedevano nel suo team a quel ragazzo di Detroit, «perché nero» –, per capire che la pietra miliare del nuovo quintetto dei Miners (i “Minatori”) sarebbe stato lui, il “genio ribelle” Bobby Joe Hill. «Verresti a giocare a El Paso?», gli chiese un’entusiasta Don Haskins, ma Bobby Joe scuotendo la testa rispose: «No grazie. Sono stanco di allenarmi come una bestia per poi non giocare mai». Il sorriso beffardo del coach che ribatté convincente: «Se vieni da noi potrai giocare tutto il tempo che meriterai». Fu così che iniziò la favola di Bobby Joe Hill, il trascinatore dei Miners. Da Gary, la suburra di Chicago, lo seguirono i “fratelli” colored Harry Flournoy e Orsten Artis. Flournoy è un ragazzone di 195 centimetri, diplomato, che ha rinunciato all’ingresso al college e per aiutare la famiglia lavora da operaio in acciaieria. Era un metallurgico anche Artis, diplomato alla Froebel High School e guardia nella squadra del liceo. Don Haskins convinse, non senza fatica, le famiglie a lasciare andare i loro figli con «lo sconosciuto coach bianco ». E lo stesso accadde con i tre del playground di New York: il “ragazzo del Bronx” Nevil Shed, Willie Cager e il playmaker Willie Worsley. Dalla Grande Mela a Houston, dove il coach riportò a El Paso il gigante buono (2 metri d’altezza per 110 chilogrammi di peso) “Big Daddy” David Lattin. Con Lattin, Haskins completava la prima parte della missione impossibile: il reclutamento dei magnifici sette, i «seven niggas». Così li salutò il direttore della Texas Western University trovandosi, incredulo, dinanzi alla «squadra più colorata» mai vista fino ad allora nel basket americano. L’unica rosa in cui i bianchi erano scesi in minoranza, cinque: i fuori sede Dick Myers, strappato alle fattorie del Kansas, Louis Baudoin, il “professore” Jerry Amstrong, e i due indigeni di El Paso, Dave Palacio e Togo Railey. Un gruppo di “irregolari” con quei «sette indisciplinati», ma ricchi di fantasia e affamati di un riscatto sociale che, chiedevano, non rimanessero solo parole lanciate al vento di quella calda estate texana. L’allegria del loro basket spensierato, di ventenni alla riscossa, gettata lì sul parquet per cancellare, almeno il tempo di una sfida sotto canestro, un secolo e più di “apartheid” americana. Specie in quel Sud razzista in cui i demoni incappucciati del Ku Klux Klan, dal 1882 ai primi anni ’50, senza pietà avevano ucciso quasi cinquemila afroamericani, molti dei quali giovani come Bobby Joe Hill e compagni. La loro era più che mai una battaglia civile da perseguire attraverso i successi di una squadra ancora tutta da forgiare. Era il dicembre del 1965 quando si accese la mina vagante dei Miners guidata da quel coach idealista, paladino convinto di una società democratica che, una volta per tutte, mediante lo sport metteva al bando la segregazione razziale. Don Haskins prima degli schemi insegnò loro il profondo valore «dell’unione e della condivisione». Questo il segreto di una delle sette formazioni inserite nella gloriosa Naismith Memorial Basketball Hall Fame. Una squadra che, da pronostico, partiva nettamente svantaggiata, specie rispetto ai munifici college di Kansas, Ohio State, Duke e ai favoriti per il titolo, i favolosi di Lexington, i Kentucky Wildcats. I “gatti selvatici”, esclusivamente bianchi, allenati per più di 40 anni dal granitico sergente di ferro Adolph Rupp. Ma i “niggas” di El Paso, dopo una preparazione matta e a tratti disperata, il 4 dicembre 1965 si presentarono tirati a lucido per la prima davanti al loro pubblico: debutto contro l’Eastern New Mexico. I pochi presenti sulle gradinate del Memorial Gym accolsero con freddezza l’ingresso in campo della strana pattuglia di casa e addirittura, pare, applaudivnao ai canestri della squadra avversaria, salutando infine la prima vittoria dei ragazzi di Don Haskins come un «casuale colpo di fortuna». Ma quando la “Miners band” mise assieme una sonante serie di 23 vittorie, nessuno osò più tirare in ballo la buona sorte. La stampa era stregata dall’invincibile armata di El Paso che, successo dopo successo, conquistò il suo pubblico, mentre ad ogni trasferta i ragazzi di Don Haskins venivano salutati con disprezzo, come la «squadra degli sporchi negri». Temuti in tutti i palazzetti, odiati dai tifosi degli altri college, derisi e umiliati come quella volta che dovettero lasciare l’albergo perché le loro camere erano state distrutte e le pareti imbrattate di sangue. A Tempe, dopo l’ennesima vittoria sugli Arizona State, i Miners uscirono scortati dalla solita pioggia di sputi e insulti e Nevil Shed, entrato in un bagno pubblico, subì un’aggressione. Ma nemmeno l’onda razzista fece naufragare il loro sogno. In quella leggendaria stagione subirono una sola, ininfluente sconfitta (di soli due punti a Seattle) e tra lo stupore dell’intera nazione approdarono alla finalissima Ncaa contro la corazzata Kentucky. Il 19 marzo 1966 fu il giorno che negli Usa venne riscritta la storia, e non soltanto quella del basket. Alla finale del Cole Fields House di College Park (Maryland), assistettero in quindicimila e il Paese incollato alla tv non credeva ai suoi occhi. Alla vigilia, dopo l’ennesima provocazione razzista, Don Haskins convocò la squadra nel cuore della notte per annunciargli: «Io sono stufo, e ho preso una decisione che metterà un freno a tutto questo, per sempre. Cinque in campo, due cambi, quaranta minuti di gioco, farò giocare soltanto i sette giocatori neri nella finale di domani». Todd, Armstrong, Palacio, Myers e Bodwin, da futuri uomini verticali quali sarebbero diventati, grazie anche a quella giornata, condivisero a pieno la decisione coraggiosa ed epocale. I Miners, il giorno dopo, punto su punto sgretolarono la superbia di Kentucky, chiudendo sul 72 a 65 e con Bobby Joe Hill miglior realizzatore con 20 punti. Con un ultimo atto di discriminazione verso i vincitori nessuno portò la scaletta per il taglio simbolico della retina del canestro, e allora Shed salì sulle spalle di Worsley e la strappò via. Uno strappo che sancì la definitiva vittoria della libertà anche nella pallacanestro. Gli afroamericani nella Nba allora erano appena il 5%, oggi rappresentano tre quarti della popolazione professionistica. Merito di Don Haskins, che con l’umiltà dei grandi fino all’ultimo ha ripetuto: «Io non ho fatto niente di strano: quel giorno misi in campo semplicemente i migliori giocatori della squadra. E risultò che erano tutti neri».
© Riproduzione riservata