«Aiutami, Signore, a esaurire il disgusto e la pietà per me stesso, a non sentirne più l’infinito orrore!»; «In me tutto va a finire in preghiera e in bestemmia, tutto diventa invocazione e rifiuto»; «Al colmo dei miei dubbi mi serve un’ombra d’assoluto, un po’ di Dio»; «Chi pregare in fondo a questo universo appassito? »; «Dio, il grande estraneo»: sono solo alcuni delle migliaia di abbaglianti aforismi che Cioran ha dedicato alla questione Dio. Anticristiano e in genere nemico delle religioni rivelate, affascinato dal buddhismo e innamorato della mistica, lo scrittore romeno Emil Cioran (1911 - 1995) non ha mai cessato lungo la sua esistenza di cimentarsi e tormentarsi, non tanto attorno all’esistenza di Dio, ma sulla sua assenza. Costretto a rinunciare a credere in Dio per mancanza di fede, lui che era figlio di un pope ortodosso, che in Romania aveva respirato un humus popolare intensamente cristiano e che sin da giovane aveva rigettato quel mondo in cui non si ritrovava, in realtà non è mai guarito da questa ferita. E ha continuato perennemente a invocarlo o a scagliarsi contro di lui. Lo testimonia un volume dell’amico e allievo Gabriel Liiceanu: Emil Cioran. Itinerari di una vita (Mimesis, pagine 152, euro 15,00), un omaggio da parte del fondatore della casa editrice Humanitas, che in Romania ha pubblicato tutte le opere di Cioran. Il libro ne ricostruisce la vita, a partire dall’infanzia trascorsa nel villaggio di Rasinari (l’unico periodo definito davvero felice) fino al trasferimento per motivi di studio a Sibiu e poi a Bucarest, sinché nel 1937 il giovane professore di filosofia riesce a ottenere una borsa di studio a Parigi, ove rimarrà fino alla morte. In appendice c’è anche il testo dell’ultima intervista filmata, realizzata dallo stesso Liiceanu nel 1990 (oltre che un dialogo con la moglie Simone Boué), ed è qui che a più riprese torna sul tema del credere: «È una questione molto delicata, perché in realtà ho cercato di credere: ho letto tutti i mistici, di cui ammiravo lo stile e il contenuto. Ma poi ho capito che mi stavo illudendo, che non ero fatto per la fede. È una fatalità, non posso salvarmi malgré moi. Non ci riesco». Molti l’hanno definito «ateologo » o «teologo del Nulla», riprendendo lo schema della teologia negativa propria dei grandi mistici. E in effetti per lui «Dio è l’espressione positiva del nulla», come ha scritto e detto in diverse occasioni. Da quando nel 1934 pubblica in Romania Al culmine della disperazione, Cioran s’inerpica sui sentieri di una filosofia dell’esistenza che abbandona tutti i sistemi assoluti, una filosofia che non può essere mai disgiunta dalla perenne ricerca di sé. Gli anni universitari a Bucarest sono consacrati, oltre che ai grandi pensatori tedeschi come Kant e Hegel, alla lettura delle opere di Nietzsche, Simmel, Schopenhauer, Šestov e Bergson, a cui dedica la tesi di laurea nel 1932. E a poco a poco emerge la sua ritrosia verso i formalismi che non hanno implicazioni con la vita concreta, e la scrittura diventa una sorta di terapia. Alle letture filosofiche si aggiungono quelle dei mistici come Teresa d’Ávila e Meister Eckhart, oltre che dei grandi scrittori come Shakespeare e Dostoevskij, che non abbandonerà mai. Scrive in una frase lapidaria nei suoi Quaderni pubblicati postumi: «Sono un miscredente che legge soltanto pensatori religiosi. Il motivo profondo è che solo loro hanno affrontato certi abissi. I 'laici' vi sono refrattari o inadatti». In realtà a chi scrive stupisce anche che ben pochi scrittori o teologi cristiani abbiano indagato la sua figura e il suo pensiero, spesso snobbandolo o inquadrandolo come 'nichilista' tout court, senza comprendere la sostanza dell’inquietudine estrema che l’animava. E sarebbe anche interessante ricostruire i suoi rapporti con personaggi come Gabriel Marcel, il filosofo esistenzialista cristiano con cui fu amico, o con Paul Tillich, il teologo protestante che incontrò più volte. Come risulta dal volume di Liiceanu, ricchissimo di apparato fotografico, Cioran amava moltissimo Simone Weil e Paul Claudel per la loro capacità di indagare la sofferenza umana, provava simpatia per Romano Guardini di cui condivideva la teoria sulla malinconia, mentre non si trovava per nulla in sintonia con Teilhard de Chardin, accusato (troppo facilmente in realtà) di eccessivo ottimismo sul destino dell’umanità. Giudizi per niente entusiastici riserva poi a Sartre e Camus e persino a Mircea Eliade: «Per lui la religione era un oggetto, e non una lotta… diciamo… con Dio. Secondo me, Eliade non è mai stato un uomo religioso. Altrimenti non si sarebbe occupato di tutti quegli dèi. Chi possiede una sensibilità religiosa non passa la vita a elencare le divinità, facendone un inventario. Non riesco a immaginare un erudito in preghiera». Ma nel libro viene a galla pure l’ossessione per la morte di Emil Cioran, che negli ultimi anni, colpito dal morbo di Alzheimer, ha subìto quell’ottenebramento della coscienza che mai avrebbe voluto che la sorte gli riservasse, assillato com’era dalla lucidità della sua coscienza. «La coscienza è molto più della scheggia, è il pugnale della carne», si legge in L’inconveniente di essere nati, in Italia pubblicato da Adelphi come quasi tutte le sue opere. Ancora, la sua sconfinata devozione verso la musica, per lui vera unica prova dell’esistenza di Dio. Per questo giudicava vani i tentativi dei teologi: che senso ha, diceva, cercare le prove della sua esistenza? Non è sufficiente ascoltare Bach?
Un libro dell’amico Gabriel Liiceanu indaga la vita e l’intensa, disperata ricerca teologica dell'intellettuale romeno
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