Leonardo DiCaprio in una scena del film “Don’t Look Up” di Adam McKay - archivio
«Il primato del male sfida la geopolitica», così ha titolato Avvenire il 26 gennaio l’anticipazione di un mio recente volume: Europa, Cristianesimo, Geopolitica. Titolo che torna in mente dinanzi al drammatico aggravarsi della crisi in Ucraina, cuore del confronto tra le ragioni post-imperiali della Russia di Putin e l’atlantismo occidentale a guida americana. Un confronto insensato, se si guarda alla necessità di governare il mondo della globalizzazione multipolare – presupposto ineludibile e ragionevole – con lo sguardo lungo della geopolitica. Perché una delle tesi di quel libretto (si scusi la doppia autocitazione, ma aiuta a far prima nell’argomentazione) è che a reggere la sfida, ai limiti dell’esiziale per il pianeta e i suoi abitanti, di una globalizzazione aberrante per i singoli e per i popoli, come già denunciavano, a Monaco, Habermas e Ratzinger nel 2004, è necessario che torni in campo l’Europa cristiana. È necessario, cioè, che al fine di un contributo cooperativo e non conflittivo al mondo multipolare della globalizzazione si faccia sentire l’utopia dell’unità geopolitica dello spazio della civilizzazione cristiana. Non per affermare se stesso, ma per servire l’umanità servendo il Vangelo, come dimostra la contro-agenda geopolitica contenuta nell’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco. Evocare, in questo senso, l’utopia non è ragionare del «luogo che non c’è», ma progettare e costruire «il luogo che non c’è ancora». È importante, perciò, che lo spazio della civilizzazione cristiana sappia ritrovare, nelle sue relazioni sulla scena del mondo, la sua ecumene, non solo spirituale, ma politica e culturale. Un’impresa in cui molto può fare la differenza europea, che questo spazio ha generato, custodendo soprattutto nella cattolicità romana l’attitudine a resistere, da un lato, all’individualismo mercatorio di stampo anglosassone e, dal-l’altro, all’interpretazione lasca dei valori di democrazia liberale in molte aree della civilizzazione cristiana sia latina sia ortodossa. Un’impresa che sollecita la civilizzazione cristiana tutta, da sempre extraeuropea, già prima di insediare a Roma il primato petrino, e di scoprire le Americhe e di insediarsi sulle rotte dell’espansione europea nei secoli 'coloniali', a farsi 'spazio cristiano', a sentirsi e costruirsi come ecumene sul piano non solo spirituale, ma culturale, politicocivile e politico-globale. Perché solo un’ecumene cristiana come spazio geopolitico (dalla Russia alle Americhe, da un’Europa rievangelizzata nel senso almeno dei valori dell’uomo dell’antropologia cristiana, alle pertinenze cristiane insediate nel mondo dal tempo dell’espansione europea) potrà porsi al servizio dell’ecumene umana in una cooperazione fruttuosa per l’uomo con le altre grandi civilizzazioni emerse nella sua storia, con gli altri grandi spazi spirituali che si sono fatti nazioni, istituzioni, spazi geopolitici: dall’islam, al confucianesimo, all’induismo. C’è da indicare al mondo multipolare delle grandi civilizzazioni rientrate, con la globalizzazione, a pieno titolo nella Grande storia la via dell’ecumene umana stretta a riconoscersi come tale mai come prima nella storia. La via del cosmopolitismo oggi possibile: fratelli tutti. Questa è la sfida. Qalche realista politico potrebbe ricordare che è un aggiornamento dell’utopia kantiana 'Per la pace perpetua'. Lo so, ma so anche che Kant aggiornava un’altra utopia, quella dell’ecumene umana annunciata dal cristianesimo, che qualche passo, zoppo, nel mondo lo ha pur fatto. E per scendere nella cronaca dell’Ucraina oggi questa utopia, che trova insensato il confronto Est- Ovest sul suolo d’Europa, è se ci si pensa un attimo nient’altro che l’aggiornamento della Östpolitik di Agostino Casaroli ispirata alla Pacem in terris di Giovanni XXIII, che pure qualche frutto pratico lo ha dato, aiutando a risolvere una grave crisi degli accordi di Yalta fondamentalmente senza guerre. Ecco, noi abbiamo bisogno in Europa di continuare a svolgere il filo di quell’ispirazione. L’ingresso o meno dell’Ucraina nella Nato come casus belli è un reperto argomentativo da guerra fredda, senza senso. A che serve questo ingresso? Ad avere un Paese in più schierato con l’Occidente atlantico in un confronto (inevitabilmente a rischio di escalation atomica) con la Russia post-sovietica? E ci sarebbe bisogno dell’allargamento della Nato per questo scenario più demenziale che nefasto? Quando tutta la geopolitica della deterrenza atomica sa benissimo che bastano due pazzi criminali che premano un bottone, perché non ci sia più per tutti – neanche per i 'neutrali' geopolitici, affacciati alla finestra del confronto – lo stesso spazio fisico della geopolitica, cioè il pianeta? Sarebbe molto più sensato lavorare all’inclusione della Russia in uno spazio ex Nato come strumento di interdipendenza globale dello spazio dell’antica civilizzazione cristiana, ai fini di una stabilizzazione multipolare del mondo in senso cooperativo. Nel lungo periodo, e neanche poi tanto, visto che la nuova frontiera del Pacifico è da tempo proiettata su scala globale, le tensioni Usa-Russia sono assolutamente illogiche. Tensioni illogiche sul piano della derivata storica della globalizzazione in atto, e tutte centrate su una sia pur pesante logica congiunturale (alcuni decenni da gestire con saggezza). Ma anche tensioni che, sottratte al prezzo del petrolio e del gas, ai pesi relativi temuti da quella o questa economia, americana ed europea, sono del tutto incomprensibili all’uomo comune, alla sua speranza di pace. O fin troppo comprensibili se il metro di giudizio diventa non l’interesse all’interdipendenza comune dei popoli e delle loro economie, un’assicurazione sulla vita per tutti, ma l’interesse più o meno predatorio di una parte o di un’altra a gestire e guidare quest’interdipendenza necessaria. Eppure la globalizzazione può ancora essere una grande occasione, se le leadership politiche vorranno essere amiche dei loro popoli e le dirigenze economiche, disciplinando e facendo tacere le pulsioni predatorie, contribuiranno a far diventare globale l’economia sociale di mercato di cui ha bisogno l’interdipendenza pacifica del pianeta. Queste classi dirigenti hanno la grande opportunità di chiudere una volta per tutte il grande mattatoio della storia universale, che ormai non è più neanche razionalizzabile, cioè pensabile con un macellaio vivo al bancone. Lo facciano se vogliono avere dalla storia statue che non siano buttate giù al crollo dei loro imperi o del loro imperio. E gli strateghi delle varie cancellerie vadano al cinema a vedere Don’t Look Up di Adam McKay, o si siedano in poltrona a leggere La strada di Cormac McCarthy.