Seguace di Hieronymus Bosch, "Discesa di Cristo al Limbro", 1575 circa. Indianapolis Museum - WikiCommons / CC by 3.0
Pubblichiamo le pagine finali di Fuoco e fiamme. Storia e geografia dell’inferno (Einaudi, pagine XX - 276, euro 25,00) con cui lo storico Matteo Al Kalak percorre la concezione dell’inferno come luogo fisico.
Rispetto alla costruzione dell’inferno – luogo così come definito nei secoli che seguirono il concilio di Trento, alcuni cambiamenti epocali possano dirsi avvenuti e siano diventati patrimonio condiviso. Il primo dato – che può far sorridere il lettore (e persino il credente!) contemporaneo – è che l’inferno, nel corso del Novecento, si è definitivamente dematerializzato. Anche se non mancano sopravvivenze, metamorfosi e sacche di resistenza, nessuno cerca più il regno del male nei recessi del globo – dove trova più comoda sede un nucleo di metallo che genera il campo magnetico. Né, come faceva il canonico Panneton negli anni Cinquanta, vi è alcuno che scruti i confini dell’universo, le comete o i limiti del sistema solare per trovare, in qualche punto, un inferno caldo e incandescente. Il luogo della dannazione è uno stato in cui l’individuo si troverà per sempre, con un tormento interiore (non per questo meno reale o doloroso). Tale dematerializzazione impone di storicizzare le affermazioni della Scrittura e quelle dello stesso magistero, per comprenderle nel loro significato effettivo (diverso dalla lettera). Se l’inferno non è più fisico, allora non si può escludere o precludere una reinterpretazione che investa anche la comprensione di altri aspetti, in un quadro che diviene più incerto e mutevole. Davanti a questo sgretolamento, qualcuno cerca di salvare l’integrità del re degli inferi (un sovrano sempre più spirituale, di cui si ripetono l’esistenza, la persona e la volontà perversa); altri puntano più semplicemente ad “aggiornare” un modello i cui cromosomi non possono essere alterati in nome dell’immutabilità della fede. Si tratta, per così dire, di due conseguenze (non necessariamente alternative) che derivano dalla stessa svolta.
Vi è poi un secondo elemento che emerge trasversalmente: le porte degli inferi non sono più in potere di Dio. Nessuno pare volergli attribuire l’onere della condanna eterna e, al posto del Rex tremendae maiestatis, entra in scena un Essere – giusto e misericordioso – che si autoimpone di rispettare il volere delle sue creature. Le chiavi dello stagno di fuoco cadono nelle mani dell’uomo, quasi che l’antico Signore degli eserciti volesse soltanto donare il paradiso e, obtorto collo, si rassegnasse a lasciare – non mandare – qualcuno all’inferno. È uno slittamento importante, quasi copernicano, che presuppone, anche per le istanze più conservatrici, una rinnovata comprensione dell’essenza del Dio cristiano, poiché – parafrasando Prezzolini – chi parla dell’inferno parla del Cielo.
La conclusione simbolica di queste pagine si può allora affidare a un verbo. Nel 2020, al termine di sedici anni di lavoro, la Chiesa italiana – come altre prima di lei – ha riformato il Messale. Molti cattolici si sono così trovati a pregare diversamente: anziché chiedere al Padre celeste di non essere indotti in tentazione, implorano di non essere abbandonati nella spirale del peccato. Il testo originale – non c’è bisogno di dirlo – è immutato, e a cambiare è il modo di restituirlo: ciononostante, la traduzione precedente non strideva unicamente perché è mutata la lingua, ma anche perché sono variate le categorie e la percezione di chi la usa. A Dio, oggi, si guarda affinché sa lvi le sue creature anche quando si trovano nella tentazione, tra le seduzioni del diavolo (chiunque esso sia) o negli impulsi di una natura fragile e imperfetta. Egli è salvatore e padre – per alcuni buono, per altri severo –, prima che giudice e garante dell’ordine. E a lui, sperando per sé, e talvolta per tutti, i figli domandano incessante mente: Liberaci dal male.