domenica 19 febbraio 2023
Torna “L’essere e il nulla”. Molti temi sono ormai risolti, eppure gli spunti sull’uomo che si fa Dio rinunciando a se stesso e sullo strapotere della tecnica hanno anticipato le derive attuali
Sartre nel 1950, al Café Flore di Parigi

Sartre nel 1950, al Café Flore di Parigi - WikiCommons

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A distanza di ottant’anni dalla sua pubblicazione L’essere e il nulla di Jean-Paul Sartre (1943), riproposto ora da il Saggiatore nella traduzione di Giuseppe Del Bo del 1964 (pagine 736, euro 28,00), pare voler riprendere una rilevanza che aveva perso, sommersa negli anni dalla ben più aggressiva french theory. Costituita da un complesso ben strutturato, benché articolato, di paradossali decostruzioni genealogiche, disseminazioni, archeologie, fino alle attuali cancellazioni culturali, eredità nefaste e, in parte, fraintese di interrogativi e domande ben più impegnative. Il prolifico Massimo Recalcati fornisce una prefazione seria ed equilibrata all’edizione revisionata dal compianto Franco Fergnani e da Marina Lazzari. Come scriveva Pier Aldo Rovatti nel lontano 1969 nell’aureo volumetto della collana “che cosa ha veramente detto” dedicato a Sartre, con L’essere e il nulla ci troviamo di fronte «al nucleo filosofico che sta alla base di tutta l’opera sartriana ». Un’opera, val la pena ricordarlo, che abbracciava e continuò a farlo fino alla sua morte, avvenuta nel 1980, la dimensione totalizzante nella quale si trova coinvolto chi scrive. Romanzi, teatro, critica letteraria, militanza politica, lo condussero al premio Nobel per la letteratura nel 1964, che rifiutò per motivi politici. Sartre ha attraversato i generi con una maestria difficilmente eguagliabile. Ma cosa ha veramente detto Sartre di così importante per noi, oggi? Tanto e poco allo stesso tempo. Se nel libro di Rovatti il tanto era ben visibile, e scandito alla perfezione, nella prefazione di Recalcati, e non è certo un suo demerito, si percepisce il poco. Non è l’importanza del testo, ovviamente, che può essere messa in discussione quanto il senso del suo indirizzarsi a noi. Analitica esistenziale, ontologia, trascendenza dell’uomo, libertà, singolarità, soggettività, desiderio... basta scorrere i capitoli del libro per rendersi conto che sono i temi che hanno assillato, giustamente, la riflessione filosofica del dopoguerra europeo. Ma, va detto, temi che la stessa riflessione giudica oggi risolti, se non liquidati, e spinti verso l’irrilevanza. Capitoli morti. Perché riproporre oggi la questione di Dio? Con quale vantaggio? Non è essa niente più che la reliquia di un oscuro passato? E l’Alterità? Non si è già provveduto alla sua sistemazione nei recinti sacri del politicamente corretto? Non basta cambiare le desinenze dei nomi per aver posto mano definitivamente all’annullamento di ogni discriminazione? Ecco, forse L’essere e il nulla, per quello che valse allora nel definire i termini dell’esistenzialismo e dell’umanismo – celebre la conferenza L’existentialisme est un humanisme, del 1944, dove poi a precisare di quale umanesimo, ed esistenzialismo, si dovesse davvero parlare intervenne Heidegger nell’anno successivo – rappresenta qualcosa di passato in giudicato. Per questo parrebbe non essere tanto quello che può dirci. Eppure è quel poco ad essere molto più interessante e, forse, decisivo per la ripresa della riflessione. Il desiderio di essere, ad esempio, che spesso diventa desiderio di essere Dio, secondo Recalcati, «rovescia la passione di Cristo», e al Dio che si fa uomo si sostituisce l’uomo che diventa Dio rinunciando a essere uomo. Non è forse ciò che ci sta succedendo? Ciò che sta accedendo dalle nostre parti? Al sovrabbondare della tecnica non corrisponde un diminuire, fin quasi alla scomparsa dell’uomo? Ecco, se si fosse tenuto il punto su questo tema, molta parte della decostruzione nichilista con la quale la filosofia occidentale si è baloccata dopo l’esistenzialismo sartriano – pensiamo al finale de Le parole e le cose di Foucault nel quale è il nome dell’uomo a essere cancellato sulla spiaggia – avrebbe trovato se non un argine almeno un correttivo e qualche avvertenza circa gli esiti ai quali si stava giungendo. I filosofi quasi mai sono dei fulmini di guerra. Il più delle volte indugiano. Sartre non lo ha fatto, è sempre stato in “situazione”, e per questo ha pagato una certa dimenticanza, un certo oblio. In più di un caso provocato da ciò che esso stesso aveva messo in movimento. Chissà che non sia venuto il momento di rileggerlo, magari per farci i conti con qualche argomento in più.

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