Péguy ritratto da Jean-Pierre Laurens nel 1908 - Centre Péguy
I seguaci di Bloy, Péguy e Bernanos si moltiplicano Oltralpe e molti intellettuali si sono riavvicinati alla fede cristiana. Pensiamo alla pensatrice Julia Kristeva, che pur dichiarandosi non credente immagina un’alleanza fra un cristianesimo depurato dalle incrostazioni del potere e un nuovo illuminismo fondato su una ragione aperta – e non ha avuto alcun timore a dialogare con papa Ratzinger; o al filosofo Fabrice Hadjadj, ben conosciuto dai lettori di “Avvenire”, e allo scrittore Alexis Jenni. Anche Alain Finkielkraut, accademico di Francia, figlio di deportati ad Auschwitz, si è richiamato più volte a Péguy e Bernanos. Allo scrittore morto durante la Grande Guerra ha dedicato il saggio L’incontemporaneo (Lindau 2012) e ne ha parlato a lungo anche nella sua autobiografia (In prima persona, Marsilio 2020). «Questo cattolico, patriota, dreyfusardo fino al midollo, ci ricorda chi siamo», ha scritto.
Ora dell’autore della mirabile trilogia su Giovanna d’Arco esce per i tipi di Medusa una raccolta di pensieri, La ricerca della verità (traduzione e cura di Riccardo De Benedetti; pagine 130, euro 16,00), la cui prima versione venne pubblicata nel 1936 a cura del figlio Pierre. La nuova edizione riprende la scansione tematica suddivisa in cinque capitoli (“La ricerca della verità”, “La nostra patria”, “La storia”, “Il mondo moderno”, “La fede”), con un’integrazione, a volte, dei passi pubblicati, tutti scritti fra il 1900 e il 1914, anno della morte avvenuta nella prima battaglia della Marna. Ne esce un florilegio di sentenze sorprendenti, “una sorta di salmodia, spesso nella forma esplicita dell’invocazione”, come rileva la nota editoriale. Soprattutto, emerge una figura straordinaria che giustamente rientra nel novero degli irregolari e degli anticonformisti.
Ecco alcuni dei passaggi folgoranti che si possono leggere: «Omero è nuovo stamattina, e niente è forse tanto vecchio quanto il giornale di oggi»; «Il kantismo ha le mani pure, ma non ha le mani»; «La fede che più amo, dice Dio, è la speranza»; «Non solo la razza degli eroi e la razza dei santi non sono le stesse. Ma sono due razze poco o male apparentate»; «Gesù è essenzialmente il Dio dei poveri, dei miserabili, degli operai, e in conseguenza di questo di coloro che non hanno una vita pubblica. Il cielo è un cielo di piccola gente»; «Bisogna salvarsi insieme. Bisogna arrivare insieme dal buon Dio. Bisogna presentarsi insieme. Non bisogna arrivare e trovare il buon Dio gli uni senza gli altri. Bisogna ritornare tutti insieme alla casa di nostro padre».
Tutte frasi, alcune delle quali notissime, da cui risalta il pensiero di Péguy, così come la sua critica militante, la verve polemica, il percorso dal socialismo al cristianesimo cui approdò nel 1907. L’arrivo alla fede cristiana non gli fece perdere l’anticlericalismo di fondo, che si manifestò nella lotta contro l’appiattimento dei credenti nel borghesismo e l’ipocrisia del mondo cattolico. Certo, rileggere alcuni passi ne conferma l’impronta patriottica e nazionalistica, in un certo senso populistica, come rileva Riccardo De Benedetti nella postfazione. Assieme a molti della sua generazione, e anche più giovani, subì il fascino della guerra come possibile palingenesi e ne rimase vittima. Ma, con Bloy, Péguy si mantenne saldo nel combattere l’antisemitismo, ad esempio prendendo posizione a favore di Dreyfus.
E fu sempre ostile alla casta degli intellettuali. Lo dimostra questo pensiero: «Niente è così dannoso come la falsa cultura. È sfortunatamente vero che quasi tutta la cultura universitaria è falsa cultura. Il popolo, prima della cultura, il popolo che combatte contro la miseria, la malattia e la morte, contro il vizio e la rovina, contro la bassezza e la sconcezza, contro le servitù e le imposte, il popolo sa d’istinto e per esperienza che ogni battaglia è dura e ingrata». E ancora: «Il popolo, prima della cultura, possiede proverbi che si considerano pericolosi, ma che non lo sono affatto perché non li si considera pensiero. Certi intellettuali, dietro la falsa cultura, possiedono formule che sono altrettanto grossolane dei proverbi, e altrettanto pericolose perché le si considera pensiero».
Proprio Finkielkraut ricordava come da ragazzo, nonostante le sue umili condizioni, lo scrittore fosse riuscito nel suo percorso scolastico stimolato da un insegnante che lo incitava a studiare il latino, tanto da fargli dire più tardi: «Entrare alla scuola media fu per me lo stupore, la novità davanti a rosa, rosae; l’apertura di un intero mondo». Annota ancora l’accademico di Francia: «Péguy ebbe il presentimento di ciò che sarebbe accaduto: la cultura sarebbe stata detronizzata da qualcosa che prendeva il nome da lei. A un tratto la cultura svaniva nel “culturale”, e ciò che caratterizza questa nuova entità è la sua capacità di inglobare tutto. “Tutto è culturale”, proclamano le scienze sociali, e se ne deduce che tutto il rap sia musica, ogni rigurgito verbale poesia, ogni oscenità un fiore del Male. Oggi, la palude è cultura».
A Rimini in mostra “La città armoniosa”
Tra la “città armoniosa”, ipotizzata da Charles Péguy nel 1898, e la Grande Guerra che mise fine alla vita terrena del grande scrittore francese, corrono pensieri parole e atti di quella che l’edizione di quest’anno del Meeting di Rimini, che gli dedica una intensa mostra curata da Ubaldo Casotto, chiama “la grande inquietudine”. A centocinquant’anni dalla sua nascita Péguy è oggetto anche di rinnovato interesse editoriale. Medusa, oltre a pubblicare La ricerca della verità, ha ristampato il poema Il portico del mistero della seconda virtù a cura di Giuliano Vigini (pagine 158, euro 17,50): le edizioni Ares, invece, con la penna di Giorgio Bruno, ha pubblicato Charles Péguy. Amico presente (pagine 256, euro 16,00), partecipata esposizione di una vita e di una scrittura più che attuale indispensabile.