«Dobbiamo tornare ai fondamentali ». È con questa
frase che il pianista e compositore Cesare Picco presenta il proprio
ennesimo progetto di rottura, con qualunque convenzione
dell’industria, del far musica e dell’ascoltarla. E che non si tratti
di mera provocazione non solo lo si ricava dalla biografia
dell’artista, mai autore di un disco uguale all’altro né tantomeno di
album “normali” per un pianista contemporaneo (dai concerti al buio
alla composizione nata nell’arco di 24 ore…): è il suono del nuovo cd
stesso, a dire che la sfida del ritorno ai fondamentali è qui
concretissima. Perché in Original Sin, affiancato dal quintetto
d’archi barocco Sezione Aurea, Picco suona il clavicordo, non il
pianoforte. E il clavicordo, antenato del piano e per nulla parente del
clavicembalo (piano e clavicordo si suonano con corde percosse tramite
martelletti collegati ai tasti, nel clavicembalo sono pizzicate), era
finito in soffitta dopo il 1700: anche se era su esso che componeva
Bach. Picco lo riprende, lo amplifica, vi unisce l’elettronica e pure
il piano elettrico Wurlitzer (quello di Sun Ra, Ray Charles, John
Lennon): e così su un suono dal sapore antico – archi compresi – innesta
modernità ritmica, piglio a tratti jazz, personalità compositiva
contemporanea. Sino a ottenere miscele fra Vivaldi e prog, antico e
futuristico, ieri e oggi, dentro otto brani che sono una messa in atto
concreta della sfida etica, più ancora che artistica, del tornare a
fondamentali che ridiano senso al far musica (e al fruirne) nel 2015. Che potenzialità “nuove” vede nel clavicordo?«Quelle del potere del suono, che è più di quello che spesso pensiamo.
Imbattersi nel clavicordo ora è scoprire qualcosa del nostro Dna di cui
non siamo più consapevoli: riporta a suoni non artificiali, a pieghe
del cuore cui non siamo più abituati. Ho scelto di tornare al
clavicordo come ennesimo tentativo di spingere a reimparare ad
ascoltare. E da pianista io per primo ho dovuto farlo: il tocco sullo
strumento è diverso da ogni altro, ma dà molto».Lei ha scritto che «mette in rapporto con l’anima». Cioè?
«È una questione fisica. Il clavicordo è piccolo, metà del piano:
suonandolo cogli dinamiche, vibrazioni, sfumature cui eri disabituato».Ma pensa veramente che possa tornare in uso oggi?«Mi piacerebbe, vorrei sentire Adele clavicordo e voce… Ha tale
emotività che potrebbe servire anche ai deejay. Anche se tecnicamente è
difficilissimo».Però lei non lo usa nudo, e anche perciò il cd si
chiama “peccato originale”: usa archi, elettronica… Scusi, ma c’è
davvero il clavicordo, nel cd?«Per far sentire un clavicordo com’è
occorrerebbe lo suonassi casa per casa: e certo non gli archi, che se
non è amplificato lo sovrastano… Ma anche il live sarà imprescindibile
per far conoscere lo strumento: certi “peccati”, dunque, sono modi per
divulgare. Poi se il clavicordo vero ci sia è una bella domanda. Per
essere puro non avrei dovuto neppure farne un disco, in realtà. Ma non
credo a passatismi o purismi: la musica va condivisa, Bach per primo
approverebbe».Però nella composizione lei parte da gusti barocchi…«Rispetto quell’alfabeto e lo uso per tentare parole nuove. Il primo
brano fa entrare il clavicordo dopo tre minuti di archi: ma entra
improvvisando. E poi vi sperimento i registri medio-bassi, gli do
tocchi sudamericani. Insomma, porto nell’oggi l’eredità di ieri: e so
che lavorare con Sezione Aurea e clavicordo influirà pure sul mio
suonare di domani».L’impatto sonoro del disco resta però barocco, il
suono del clavicordo lì ci porta d’acchito. E questo non è un limite
invalicabile per la sua sfida?«Da un lato potrei dirle che cerco in
realtà un terzo suono, nuovo rispetto al clavicordo in sé e alle altre
fonti prese da sole; da un altro lato il suono che si sente è quello
del “mio” clavicordo, perché ogni scatola di legno-clavicordo suona in
modo diverso mentre due pianoforti li distinguono solo gli specialisti.
Però non ha tutti i torti, è come quando sentiamo un organo e
pensiamo: è musica da chiesa. Ma ecco il punto: vede come siamo
abituati a limitarci da soli? Prenda un libro: lo legge a sedici anni e
le dice delle cose, lo rilegge a cinquanta e ciò che ci vede o riesce
a vederci è diverso. Io vorrei accadesse anche con la musica, che ogni
ascolto fosse il primo. Anche perciò, il clavicordo: dà il valore
aggiunto di fornire un suono in qualche modo nuovo».Ma a Cesare Picco pagano, queste continuesfide?
«Direi di sì: e comunque ne ho bisogno, non sarei capace di fermarmi
in un unico mondo: ora penso a dischi jazz e sulla mia visione di
rock alternativo… Faccio il musicista per non essere rassicurato, ed
affronto un progetto solo se non so dove vado. Penso che la musica,
anzi l’arte, si evolva salendo gradini e magari pure inciampandovi. Da
esplorazioni ed errori, nasce il nuovo: e poi quando io chiedo al
pubblico l’impegno di ascoltare in un altro modo, devo io per primo
buttarmi, reimpararmi, rinunciare al concetto di disco come mero
oggetto da vendere»