A conforto delle nostre asserzioni ricordiamo, sempre a titolo di esempio, che nel Parmense 11 delle 22 brigate operative si dichiaravano democratico-cristiane mentre Gastone Franchetti, l’organizzatore delle Fiamme Verdi bresciane che sarà fucilato dai fascisti nell’agosto 1944, aveva raccolto 2.800 uomini, il doppio, se non il triplo, delle formazioni garibaldine. E c’era tutto un retroterra di chi, pur non volendo imbracciare le armi, forniva il cibo, l’assistenza materiale e sanitaria, i collegamenti, il supporto informativo. Un’attività sottotraccia, nonviolenta, espressione oltretutto di un’Italia degli indifesi, che esasperava il nemico, inducendolo a inumane rappresaglie contro vecchi, donne e bambini e che non tollera il nome di "guerra civile", come in seguito si è voluto impropriamente catalogarla: era una rivolta contro l’invasore, al cui servizio si erano posti i fascisti della Repubblica sociale italiana. Una Resistenza, la definisce lo storico Agostino Giovagnoli, come forza di lungo periodo, e alla quale concorse gran parte della comunità nazionale.Non poteva esserci per i cattolici, a uno sguardo retrospettivo, scelta diversa nei confronti del nazifascismo, con il suo disprezzo per la dignità umana. E se l’hitlerismo aveva da tempo giocato le sue carte contro i valori dello spirito, e quindi contro i più intimi convincimenti dei cristiani, il larvale fascismo rimesso in sella dall’occupante perdeva ogni alibi (si ricordino le volgari filippiche di Roberto Farinacci e altri gerarchi contro vescovi e preti) e non poteva neppure più vantare benemerenze "nazionali" e cristiane. La libertà come dato morale, le implicazioni etiche «delle libertà» furono contributo e riscoperta a un tempo, da parte dei cattolici, di quei fattori sui quali si fondano il dialogo, la partecipazione, l’essere veramente comunità, società con gli altri, in poche parole democrazia. Possiamo citare la suggestiva definizione di Henry Michel, secondo il quale per i cattolici «la Resistenza più che una politica è una mistica».Non era un fenomeno, dunque, che nasceva a caso. Poté fare in tempo a riconoscerlo persino Eugenio Curiel, un dirigente comunista ucciso dai nazifascisti: «L’interesse delle masse cattoliche – scriveva – e della Chiesa alla democrazia e alla libertà è una realtà che vent’anni di oppressione fascista hanno reso inoppugnabile: la distruzione delle fiorenti istituzioni sociali promosse dai cattolici nelle città e soprattutto nelle campagne, la continua coazione che finì per ridurre entro limiti intollerabili la vita delle organizzazioni cattoliche e specialmente di quelle giovanili..., infine il lento avvilimento di ogni dignità individuale sono il prezzo che le masse dei lavoratori cattolici e la Chiesa hanno pagato all’uomo del Concordato». Ma l’avversione alla dittatura non consistette soltanto in una reazione a diritti sociali e personali conculcati; apparteneva, invece, a un patrimonio ideale che la tirannia, in Italia e in Germania, non poté del tutto soffocare e che altrove l’invasione e l’oppressione non furono capaci di eliminare.
La Resistenza, ripetiamo, non sarebbe stata possibile senza un saldo patrimonio morale anche di natura religiosa: la Rsi non ebbe alcun riconoscimento ufficiale e istituzionale da parte del Vaticano; Pietro Palazzini, poi cardinale, dichiarerà: «La resistenza passiva... a un governo illegittimo quale era la Repubblica di Salò, tenuto in pugno da un esercito usurpatore, eticamente era legittima». I fascisti abbandonarono infatti le referenze alle radici cristiane – strumentalizzandone alcune soltanto a fini di propaganda –, come apparve chiaro da comportamenti specifici quali le deportazioni di ebrei e non ebrei, i processi senza garanzie giuridiche, le camere di tortura, le condanne a morte, le rappresaglie contro i civili, le stragi di massa, l’esecuzione sommaria di sacerdoti (i repubblichini ne uccisero più dei tedeschi), la durezza degli attacchi alla Chiesa e ai suoi rappresentanti sulla stampa controllata da Salò. L’impianto della clandestinità ha potuto svilupparsi perché nelle città, nelle campagne, nelle parrocchie, negli oratori, nella società civile, all’interno di ogni ceto si alimentava la ribellione morale all’oppressore. Si intuiva che il «nuovo ordine» imposto dalle armi naziste poteva identificarsi con una sorta di «male assoluto».