sabato 16 luglio 2022
Un libro di Natalizi la racconta: seppe scegliersi ministri abili, ma rimase sempre tedesca nel profondo, per quanto avesse formalmente rinunziato alla fede luterana per seguire la Chiesa russa
Alexander Roslin, 'Ritratto di Caterina II', 1780

Alexander Roslin, 'Ritratto di Caterina II', 1780 - WikiCommons

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La Russia va di gran moda, di questi tempi: e il perché è superfluo chiederselo. Ed escono a getto continuo libri di vario valore scientifico – o più spesso di mediocre se non bassa qualità divulgativa e propagandistica – che invadono le librerie, per quanto (ed è un problema questo ben presente a editori e a librai) nel nostro paese l’offerta libraria sta sempre più drammaticamente superando la domanda: e anche la maggior parte di chi i libri li compra, almeno a giudicare dai risultati che si valutano ad esempio da quanto esce scritto online dai nostri concittadini, poi non li capisce o addirittura non li legge. È passato il tempo nel quale sul tavolinetto da caffè dei salotti della buona borghesia stava trionfalmente esposta una copia – magari intonsa – di Il nome della rosa o di Il maestro e Margherita. Oggi, tali pruderies non esistono più. Nella stragrande maggioranza delle case italiane di libri non c’è manco l’ombra e nessuno se ne vergogna. Va quindi salutato con gioia un libro che presenta agli italiani un grande personaggio del quale troppi di loro non sanno proprio nulla, anzi non l’hanno nemmeno mai sentita nominare. Nella galleria delle donne storiche famose, in un paese che resta poco versato nella storia e per giunta ostinatamente maschilista nella sostanza, tra le sovrane c’è poca roba: Caterina de’ Medici forse (non Maria), Elisabetta I e Vittoria d’Inghilterra, magari la povera Maria Antonietta perché perse la testa (e non per amore) e Maria Luisa d’Asburgo per via di Napoleone. L’imperatrice Maria Teresa d’Austria, che fu anche regina d’Italia, è piuttosto nota a Milano e in Lombardia. Me se pronunzi il nome di Caterina rischi di sentirti rispondere ch’era una santa senese. Invece, perdinci, no. Quanto a zar è semmai conosciuto Pietro il Grande, noto per essere un gigante brutale, alcolizzato e assassino ma molto meno perché fu un genio delle costruzioni cantieristiche innamorato dell’Olanda e il sovrano che forzò l’aristocrazia russa a uscire dal medioevo tartaro-persiano, a tagliarsi la barba e a diventare occidentale: e molti non gliela perdonarono mai. Proprio a causa di questo tenace residuo asiatizzante della classe dirigente russa ancora nel XVIII secolo, la vera europeizzatrice della Russia fu la zarina Caterina. Una donna inflessibile e geniale. Marco Natalizi, specialista di storia est-europea nell’Università di Genova, ce la racconta in un libro di grande nitidezza e d’intelligente impianto – Caterina di Russia, edito dalla Salerno (pagine 544, euro 32) – che non concede nulla alla divulgazione ma che nasconde il suo carattere scientifico di fondo controllando con cura gli aspetti problematici (molti) dell’indole e della vita del suo personaggio e svolgendo quelli espositivi con la maestria del narratore esperto, qua e là quasi del romanziere. La principessa Sofia di Anhalt-Zerbst, nata nel 1729, aveva appena 15 anni allorché, nel 1744, sposò un suo conterraneo di appena un anno più vecchio di lei, il principe Pietro, per volontà della zia materna di quegli, la zarina Elisabetta figlia di Pietro il Grande. Quando nel ’62 l’imperatrice morì, Pietro III gli sopravvisse appena sei mesi prima di morire avvelenato vittima di un complotto al quale sembrava che sua moglie, ormai trentatreenne, non fosse stata estranea. Quel ch’è certo è che i due si detestavano a vicenda. Ma lo zar Pietro nel suo brevissimo regno aveva avuto modo di dimostrarsi politicamente un inetto: Caterina, che avrebbe regnato per 34 anni prima di morire sessantasettenne nel 1796, donò al suo paese un periodo di gloria, di vittorie e di pace e prosperità destinato a restar proverbiale nella storia del suo paese. Rimase sempre tedesca nel profondo, per quanto avesse formalmente rinunziato alla sua fede luterana per abbracciare l’ortodossia anche dal momento in cui, come zarina, della Chiesa russa ortodossa era il capo. Ed ebbe la fortuna, ma anche l’intelligenza, di scegliersi l’uno dopo l’altro due prìncipi primi ministri – che si avvicendarono altresì nella sua alcova come amanti – di straordinaria abilità: Grigorij Orlov e quindi un altro Grigorij, quel Potëmkin il nome del quale sarebbe stato imposto nel primo Novecento alla più celebre corazzata della cinematografia di tutti i tempi. Il Potëmkin avrebbe stroncato la rivolta popolare dell’avventuriero e carismatico Pugacëv (1773-75) - l’epopea del quale sarebbe stata narrata in un romanzo di Puskin, La Tempesta –, conquistando la Crimea e fondato Sebastopoli fra ’83 e ’84 prima d’impegnarsi tra il Caucaso e il mare in una lunga guerra contro l’impero ottomano che segnò il tracollo del sultanato d’Istanbul. Sulla zarina circolava ogni sorta di leggende. Si diceva che fosse 'atea' aveva senza dubbio nel suo comportamento connotati razionalisti e poco inclini a conciliarsi con l’ortodossia, specie in termini di spiritualità mariana – e che fosse un’insaziabile ninfomane, com’era denunziato dai suoi soprannomi di 'Messalina' o 'Semiramide' del Nord; ma la sua difficile familiarità con la lingua russa, che non imparò mai del tutto a padroneggiare, si accompagnava a una grande ammirazione per la cultura e la civiltà francesi che la spingeva naturalmente a simpatizzare con le idee dei philosophes e a impegnarsi per mettere il suo impero in condizioni di accettare le riforme politiche e sociali illuministiche. Avrebbe voluto difatti affidare l’educazione di suo figlio, lo zarevich Paolo (il futuro Paolo I), al D’Alembert, che però declinò l’offerta: in cambio, la zarina avviò un proficuo scambio epistolare col Voltaire, contendendone l’amicizia al re di Prussia Federico il Grande che non amava granché (era stato la bestia nera di sua zia Elisabetta e l’idolo di suo marito Pietro). Del suo rapporto col Voltaire e con altri illuministi – dei quali peraltro detestava la fatuità e la venalità – Caterina fece costante materia di propaganda della sua immagine in Europa di sovrana colta e lungimirante. Non aveva mai rinunziato ad attrarre presso si sé un grande intellettuale europeo: e vi riuscì con Denis Diderot, che invitò a raggiungerla – il che avvenne nel 1773 – promettendogli di poter continuare a Riga la pubblicazione dell’Encyclopédie: lo comprò letteralmente a peso d’oro, ma d’altro canto ne ammirava sinceramente le idee specie a proposito dell’abolizione della schiavitù. Diderot rientrò comunque in Francia nel ’74, dove sarebbe rimasto fino alla morte un decennio più tardi. Quanto a Caterina, che manteneva rapporti molto cordiali sia con l’Austria, sia con l’Inghilterra, l’esperienza dei suoi rapporti con gli illuministi francesi l’aveva lasciata dubbiosa: e gli sviluppi delle cose di Francia dopo il 1789 la rese molto critica e ostile a quella rivoluzione della quale essa fino dalle prime battute aveva criticato con rigore il carattere degenerativo. La rivolta polacca del 1794 la radicò in una profonda ostilità nei confronti delle nuove idee che stavano nascendo in Occidente. Morì, disincantata rispetto al nuovo e fedele alla sua visione dispotistico-illuminata del mondo, nel 1796.

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