mercoledì 1 marzo 2023
La scrittrice racconta la vicenda delle isole Chagos, i cui abitanti furono deportati dai britannici per fare spazio a una base militare Usa: «È la storia dolorosa di tutte le popolazioni sradicate»
Veduta aerea dell'isola Diego Garcia, nell'arcipelago delle isole Chagos.

Veduta aerea dell'isola Diego Garcia, nell'arcipelago delle isole Chagos. - The U.S. National Archives / Pubblico Dominio

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«Da piccola mia madre mi raccontava una storia. Quella di un paradiso perduto al margine dell’oceano, stritolato un giorno dalle fauci di un mostro. So bene che nessun libro ha il potere di rovesciare il mondo, ma forse riuscirò, attraverso la scrittura, a far sì che la mia collera diventi anche un po’ la vostra». Queste poche righe fanno parte della postfazione che Caroline Laurent, scrittrice franco-mauriziana e professoressa associata di Letteratura moderna alla Sorbona, ha scritto al suo secondo romanzo, Le rive della collera (edizioni e/o, pagine 346, euro 20,00), appena uscito in Italia e dedicato a tutti i chagossiani in esilio.

Un libro scritto con un profondo approccio letterario, ma anche come testimonianza mascherata di alcuni fatti reali. È stato molto premiato in Francia e si ispira ai fatti relativi alla dominazione britannica nelle isole Chagos, un arcipelago annesso a Mauritius (di cui è appunto originaria la famiglia dell’autrice). Dopo 158 anni di dominazione le isole diventano indipendenti, ma gli abitanti di Diego Garcia, isola dell’arcipelago delle Chagos, vengono deportati a causa degli interessi americani, che ne fanno una base militare. Un fatto che nel 2019 è stato definito davanti alla Corte di giustizia internazionale, con una condanna a stabilire che la separazione delle Chagos da Mauritius fu illegale. Il tutto è stato ribadito anche nel 2021 dal tribunale internazionale del diritto del mare e a marzo 2022 per la prima volta, una piccola delegazione di chagossiani, è tornata a casa.

Il libro è ispirato a fatti realmente accaduti, perché ha scelto di scrivere questa storia?

«Mia madre, mauriziana, è vissuta a Diego Garcia all’inizio degli anni Sessanta. In quel momento l’isola sembrava un paradiso. La vita era umile, semplice e tranquilla. Quando tutto è cambiato, quando il paradiso è diventato un inferno, quando la popolazione chagossiana fu deportata brutalmente negli anni Settanta dai britannici per motivi politici e strategici, mia madre ha provato indignazione e rabbia. È questa rabbia che lei è riuscita a trasmettermi tanti anni dopo. Una rabbia giusta, che mi chiedeva di far sapere una storia tragica che nessuno conosceva in Europa».

Questo libro parla della lotta per riappropriarsi di un mondo, anche se è cambiato. Si può dire che parli anche di speranza e coraggio?

«Il mio libro è una storia di coraggio, di speranza, di ricerca di giustizia e ostinazione umana. Ho pensato al mito di Sisifo: ogni giorno, rotolare la roccia fino alla cima della montagna; ogni giorno, guardare la roccia che viene giù; ogni giorno, ricominciare tutto. È una cosa terribile e profonda, ricominciare. Secondo me, è la metafora perfetta dell’esistenza».

Qual è il rapporto dei personaggi con la fede? All’inizio del libro, per esempio, Josephin dice di non avere fede.

«Aver fede è un lusso che Josephin non può permettersi a causa della brutalità degli uomini. Però, non aver fede non significa perdere il coraggio. È un combattimento contro il mondo esteriore, ma anche e soprattutto una lotta interiore».

Più avanti nel libro poi viene fuori l’importanza della religione e lei parla delle preghiere dei bambini che andavano a mettere fiori sulle tombe dei loro antenati.

«I Chagossiani sono molto religiosi, di fede cattolica. Il rapporto con i loro antenati conta molto, e penso sia un modo per loro di mantenere un legame forte con le isole rubate. Da questo punto di vista, Josephin è un personaggio un po’ a parte nel romanzo».

Un altro tema centrale è quello dell’esilio e dello sradicamento. Lei parla di quando si è costretti a partire, di quando si perde tutto: beni materiali e immateriali, lavoro, serenità, felicità, dignità, cultura e identità.

«L’esilio è una lacerazione. Un buco nel cuore. Perdendo la loro terra, i Chagossiani hanno perso tutto: la loro vita è stata calpestata. Questa storia non ha fine; è la storia dolorosa di tutte le popolazioni sradicate, ieri e domani. Il caso chagossiano può far pensare alla storia delle isole Bikini: durante gli anni Quaranta, gli Americani hanno cacciato gli abitanti originari per poter realizzare dei test nucleari. L’Occidente di fronte alle minoranze: dramma sempiterno».

Il concetto di giustizia è un altro concetto importante. Cosa significa indipendenza dopo 158 anni?

«Per l’isola Mauritius, l’indipendenza è una realtà galleggiante. Il Paese è coinvolto nella corruzione. Le dipendenze economiche con l’Asia, soprattutto l’India, sono oggi fortissime. Al di là della Nazione Arcobaleno venduta ai turisti, la società mauriziana non è ancora riuscita a trovare la sua propria libertà».

Accanto alla storia dell’isola lei racconta anche una storia d’amore. È un pretesto narrativo o c’è un significato simbolico sull’importanza del sentimento come collante per ogni cosa?

«Io volevo scrivere una tragedia moderna. Non è un caso se ho citato il Berenice di Racine in rilievo all’inizio del romanzo. Era per me un modo di umanizzare il soggetto e renderlo universale. L’amore tra Marie e Gabriel dà impulso alla drammaturgia, però anche al loro combattimento per la giustizia. L’amore è l’unica radice senza radici, l’unica isola che si può abitare ovunque ci si trovi. È un orizzonte e una riva».

Il suo racconto letterario rende noto un problema sociale ignorato. C’è anche un messaggio politico in questa storia?

«La popolazione chagossiana è stata mantenuta per anni nell’ignoranza. Non sapevano leggere né scrivere. Era anche una tragedia del silenzio. Io volevo prestare la mia voce a loro per condividere la loro tragedia. Gli scrittori hanno questo potere: rompere il silenzio. Tessere una memoria comune. Far vivere questa sublime verità del poeta Terenzio: "Homo sum, humani nihil a me alienum puto", sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo».

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