venerdì 5 aprile 2024
Un saggio storico quello di Gianfelice Facchetti che partendo dal padre Giacinto, capitano dell'Inter e della Nazionale traccia il profilo di quei campioni che sono diventati Miti, Esempi e Bandiere
Gaetano Scirea (1953-1989) capitano della Juventus anni '70-'80 e campione del mondo con la Nazionale al Mundial di Spagna 1982

Gaetano Scirea (1953-1989) capitano della Juventus anni '70-'80 e campione del mondo con la Nazionale al Mundial di Spagna 1982

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«Capitano mio capitano», recita la voce poetica d’America Walt Withman. Capitani miei capitani, è invece l’inno alla lode di Gianfelice Facchetti, attore e regista teatrale, figlio del grande “Giacinto Magno” eternato in Azzurro tenebra da Giovanni Arpino che lo annoverava tra i miti assoluti del calcio italiano, oltre che uno dei pochi “salvati” della disfatta Mondiale di Germania ’74 che fa da sfondo a quel romanzo epocale. Arpino è anche padrino di battesimo di Gianfelice Facchetti, per una promessa fatta e mantenuta dallo scrittore, torinese di nascita e juventino di fede calcistica, nei confronti di suo padre, la bandiera nerazzurra Giacinto. A lui che è “Il mio capitano”, Gianfelice dedica il saggio antologico Capitani (Piemme. Pagine 218. Euro 18.90) che si legge come un piccolo romanzo familiare, facendo sventolare al vento caldo della nostalgia quei piccoli eroi esemplari della storia di cuoio che nel sottotitolo vengono presentati come Miti, Esempi , Bandiere. Figurine quasi introvabili ormai che per Facchetti jr rispondono a questo identikit: «Capitano è chi si prende cura della propria passione in ogni dettaglio e riesce sempre a dare qualcosa in più degli altri. Perché osserva e ascolta ciò che ai più sfugge e in questo si distingue. Non è migliore degli altri, è semplicemente diverso». E allora cominciamo il nostro viaggio di scoperta o riscoperta di questi esseri speciali che sono un’autentica cura per il calcio malato di oggi.

Franz Calì: il primo capitano della Nazionale

Nell’azzurro luminoso e senza tenebre si parte dal fischio d’inizio che vide la comparsa del “primo capitano” della Nazionale: Francesco Calì, nato a Riposto, in provincia di Catania, nel 1882. Ma per tutti, nella Svizzera dove la sua famiglia era emigrata, divenne Franz, come il Kaiser Beckenbauer, leggenda, da poco non più vivente, di quella Germania campione del mondo, proprio in quel ‘74 arpinesco- facchettiano. Franz Calì, poliglotta da ben cinque lingue parlate correttamente, rientrato in Italia iniziò a giocare nel Genoa (con cui perse la finale scudetto con il Milan nel 1901) per poi passare sull’altra sponda illuminata dalla Lanterna, l’Andrea Doria. Era il faro di quella squadra quando il 15 maggio 1910 rispose alla prima convocazione della Nazionale chiamata al debutto ufficiale del calcio azzurro contro la Francia, all’Arena Napoleonica di Milano. Ma quel giorno, l’Italia vinse 6-2, ma giocò «in camicia bianca con colletto e polsini inamidati», ricorda Facchetti. Specchio dei tempi: non c’era denaro per una maglia colorata, tanto meno azzurra, e nemmeno delle divise uguali per tutti, infatti «qualcuno ha i pantaloncini bianchi, altri li indossa neri». Franz non ha la fascia del capitano al braccio, quella arriverà dopo, ma sfodera autorità e carisma da autentico leader, riconosciuto anche dalla cronaca della Gazzetta dello Sport che lo elogia entusiasta: «Calma, sicurezza e precisione di calcio e perfezione di giuoco, Calì è il più degno a coprire il posto di capitano nel nostro undici nazionale». Il primo uomo con la pasta del vero capitano della storia azzurra giocherà solo due partite con la Nazionale (l’altra a Budapest contro i maestri dell’Ungheria, che vinsero 6-1), ma fino al 1921, quando dopo Svizzera-Italia si congedò dal ruolo di allenatore, rimase fedele alla maglia azzurra, pur non avendola mai indossata in vita sua.

Eroi su un campo di calcio e poi su quello di battaglia

L’antenato e perfetto precursore di Giacinto Facchetti è stato Virgilio Fossati, “Capitano di guerra”. Aveva solo 18 anni quando i compagni dell’Fc Internazionale gli consegnano la fascia del capitano con cui diventerà campione d’Italia nella stagione 19091910. Il primo degli ormai 20 scudetti nerazzurri (la seconda stella per l’Inter di Simone Inzaghi è ormai a un passo). Il ritratto del giovane Virgilio, chioma a parte, sembra davvero quello di Giacinto Facchetti: «Era alto, dinoccolato, colle gambe lunghe come dei trampoli, il petto sottile, il viso del fanciullo, i folti e bruni capelli a spazzola ». Fossati, il calciatore studente, fu anche capitano della Nazionale con cui dopo il gol alla Francia nel 1910, mise insieme 12 presenze prima della chiamata alle armi: nel 1913 chiese e ottenne di essere nominato sottotenente di complemento di fanteria. «Fu inviato sul Carso, fine del gioco», scrive Facchetti. Ironia della sorte, morì da capitano dell’Ottavo Reggimento Fanteria della Brigata Cuneo «Uno dei 700mila italiani inghiottiti dalla guerra », e di questi 31 erano tesserati dell’Fc Internazionale. Oltre 300 i “caduti del calcio”, immolatisi tra le trincee e i campi di battaglia della Grande Guerra. Quella meglio gioventù, sacrificata e strappata alle loro famiglie e un po’ a tutte le squadre che non videro più tornare i loro piccoli grandi eroi esemplari della domenica. Il Milan diede l’addio a Erminio Brevedan, la Juventus perse uno dei suoi calciatori-fondatori e poi presidente, Enrico Canfari. Morto in battaglia anche Felice Milano, vincitore di cinque scudetti con i mitici bianchi della Pro Vercelli. Tra i caduti anche l’inglese James Spensley, fondatore e mitico capitano del Genoa che Gianfelice Facchetti immagina abbia incrociato il genio precoce di Albert Einstein nel suo soggiorno genovese (era arrivato da Pavia per curare l’esaurimento nervoso), magari alla pasticceria Romanengo vicina all’Hotel Union dove prese alloggio il pioniere britannico del Genoa Cricket and Football Club.

Barbesino, una storia unica come il suo scudetto

I capitani unici sono soprattutto quelli che hanno giocato nelle provinciali che fecero l’impresa. Tipo la Novese che trionfò nella Coppa Italia del 1922 e poi le piccole grandi da un solo scudetto: il Cagliari del filosofo Scopigno e di Rombo di Tuono Gigi Riva, il Verona di mister Bagnoli e capitan Tricella, la Samp di Boskov e dei gemelli del gol Vialli e Mancini. Ma prima di loro, ci furono i nerostellati del Casale del prof. Raffaele Jaffe. Ebreo, deportato e morto nel lager nazista di Auschwitz, nel 1944, Jaffe il suo capitano lo nominò nella palestra dell’Istituto Leardi a cui si era iscritto l’allievo modello Luigi Ferdinando Barbesino, classe di ferro 1894. Una vita da mediano, una diga alla Briegel o il Wierchowod della Samp, nel 1914 trascinò il Casale Fc alla conquista dello scudetto. Barbesino onorò la maglia nera con oltre 80 presenze da capitano, fino a diventare il primo calciatore del Casale chiamato dalla Nazionale. Ma il suo record principale lo stabilì nei cieli dove fu aviatore in due guerre mondiali. Scampato al conflitto del 1915-’18, cosa che non riuscì ai suoi due compagni di squadra Alessandro Ghena e Giuseppe Ferrino, avrebbe potuto evitare la Seconda Guerra mondiale, anche per il fatto che ormai era un affermato allenatore di professione: la sua Roma lottò per lo scudetto nella stagione 1935’36. Barbesino era alla guida del Venezia quando fu richiamato in servizio come Maggiore pilota dei bombardieri SM-79 della 194ª Squadriglia da Bombardamento. Da Sciacca, in Sicilia, dove fu mandato in missione spedì l’ultima cartolina in cui scrisse: «Nel 1918 volavo e combattevo nelle Alpi venete contro gli austriaci. Oggi volo e combatto con i nemici di ieri e contro gli alleati di allora! Ricordati sempre … e per il Casale Hip, Hip. Hurra!». Il 20 aprile 1941 fece il suo ultimo volo: l’aereo del capitano Barbesino svanì nel nulla, disperso per sempre, e come scrive Gianfelice Facchetti: «La sua storia resta scritta nel cielo come a volte, per i capitani si conviene».

Miti, Esempi e Bandiere: uomini da una squadra una vita

Il padre di Facchetti, Giacinto, appartiene a tutte e tre le categorie, Miti, Esempi e Bandiere. E questo vale anche per le altre rare dinastie del pallone italico. La nobile stirpe milanista dei Maldini, Cesare e Paolo, quella dei Mazzola, Valentino e Sandro, il primo leggenda del Grande Torino e l’altro capitano ufficiale dell’Inter in cui sventolava alta anche la bandiera di “Giacinto Magno”. Monumentali quei capitani da una maglia una vita: Gianni Rivera (Milan), Gigi Riva (Cagliari), “Totonno” Juliano (Napo-li), il neo70enne Giancarlo Antognoni (Fiorentina), Francesco Totti (Roma), Alessandro Del Piero (Juventus)... Alla categoria sempre più rara dei capitani che hanno lasciato un segno indelebile, anche dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, appartengono, i giustamente celebrati nel libro, Gianluca Signorini, a 42 anni vittima del “Morbo del Pallone” (la Sla) al quale il Genoa ha reso omaggio ritirando la sua maglia, la numero “6”. La stessa di Franco Baresi il “kaiser” del Milan (sua è la prima maglia ritirata nel campionato italiano, nel 1997) che ebbe l’onore in un derby di sfidare il fratello Beppe, capitano dell’Inter. Tra le maglie numero “10” ritirate, accanto a quella di “Eupalla” Maradona al Napoli e del “divin codino” Roby Baggio al Brescia, figura anche la “10” dell’Avellino che fu di Adriano Lombardi, un altro capitano coraggioso che con cuore impavido ha lottato, come Signorini, fino all’ultimo respiro per tentare di battere la Sla. La Fiorentina ancor prima di perdere il suo amato dg Joe Barone, alla vigilia di un’altra partita, con l’Udinese, sei anni fa perse il suo “capitano gentile” Davide Astori e d’ora in poi la sua n. “13” non la indosserà più nessun calciatore viola. Ha vissuto e lottato per il Siena Stefano Argilli. Nel 2006 per primo denunciò lo scandalo di Calciopoli (in un’intervista concessa al sottoscritto e pubblicata da Avvenire prima di Siena-Juventus) pagandola cara, ma prima era stato anche il primo e l’unico calciatore italiano a cui, a furor di popolo della città del Palio era stata ritirata la maglia (la n.8 del Siena) salvo poi essere ceduto al Modena. Dopo anni di immeritato ostracismo il Siena ha richiamato Argilli per affidargli i ragazzini del settore giovanile. Esperienza che gli è servita per passare a guidare i grandi dell’Asd Valentino Mazzola, Eccellenza Toscana, e intitolazione altrettanto eccellente del club dedicato a un capitano vero, come mister Argilli.

Giacinto e Scirea, i loro silenzi ci parlano ancora

Andando oltre i cieli di capitan Barbesino, lassù, al di là delle nuvole, si sono ritrovati Giacinto Facchetti e Gaetano Scirea. Divisi dall’acerrima rivalità storica delle loro squadre, l’Inter e la Juventus, ma uniti dalla stessa indole saggia e taciturna dell’hombre vertical e dal rispetto profondo per la maglia azzurra. In Nazionale, oltre a quella di Rivera e Mazzola a Mexico ‘70 ci fu la loro simbolica staffetta, al Mundial di Argentina ’78. Giacinto che aveva chiuso da libero, passando dalla maglia numero “3” della Partita del secolo ( Italia-Germania 4-3) di Mexico ’70, alla n. “6” consegnò, da capitano non giocatore, quella maglia a Scirea, e con quella quattro anni dopo salì sul tetto del mondo al Mundial di Spagna ’82. Due figliocci del ct Enzo Bearzot che per il troppo amore e l’ammirazione smisurata che nutriva per Giacinto e Gaetano confessò di non essere riuscito ad andare a dargli l’ultimo saluto. Facchetti orfano di padre e cresciuto a Treviglio in una casa di sole donne, parlava con il linguaggio di quel corpo, statuario, una freccia lanciata nel vento come il fermo immagine della copertina di Azzurro tenebra. Scirea, figlio della classe operaia di Cinisello Balsamo, parlava con gli occhi e con quei silenzi che commossero anche quel vecchio pastore sardo che, quando Gaetano morì, a 36 anni nel 1989, lo salutò per sempre chiudendo la lettera inviata alla famiglia con un tenero «addio, figlio mio». «La storia di Scirea - scrive Gianfelice Facchetti - racconta che alcuni capitani autentici e amati da tutti hanno abitato il mondo, la strada, la piazza, rendendosi visibili e riconoscibili nella loro disarmante umanità». Umani troppo umani, eleganti, impeccabili, in campo e fuori, due capitani uniti anche dagli Stadio che con la voce struggente di Gaetano Curreri cantano: «Giacinto e Gaetano, sono due tipi che parlano piano, anche adesso, adesso che sono lontano, ma in questo frastuono è rimasta un’idea, un’eco nel vento, Facchetti e Scirea».

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