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Pubblichiamo i contenuti che saranno esposti in “Donne e scienza, chiave di volta”, un dialogo con Roberta Fulci, giornalista scientifica di Radio 3 Scienza, moderato da Flavia Marcacci, docente di Filosofia della scienza alla Pontificia Università Lateranense. L’appuntamento è per sabato 10 febbraio, alle 17 alla Sala del Dottorato, Chiostro della Cattedrale, a Perugia (piazza IV novembre).
L’essere maschio o femmina, in quanto genere di chi fa ricerca, incide sulla correttezza di un teorema matematico o di una applicazione tecnica? Sulle prime queste domande stridono e mancano di senso. O almeno, contrastano con l’aspirazione alla neutralità che associamo al linguaggio formale e scientifico. Che la scienza non fosse neutrale sotto il punto di vista valoriale ed epistemologico fu al centro di un ampio dibattito intorno agli anni Settanta, discusso da personalità come Ludovico Geymonat o Bruno De Finetti. Le domande qui poste, invece, alludono alla neutralità rispetto ai generi, come se la mente maschile e femminile fossero diversamente esposte alla scienza. Muovendo dall’opposta convinzione, oggi si lamenta che le discipline STEM (science, technology, engineering, and mathematics) patiscano una minore partecipazione femminile e che, in generale, il pubblico femminile sembri meno interessato alle scienze e alle tecniche. Esistono molti progetti formativi volti a incentivare interesse verso questo sapere tra bambine e ragazze per ovviare al gap partecipativo. Queste considerazioni sembrano far concludere che no, il genere non può influenzare la bontà di un contenuto astratto o applicativo. Eppure è ben nota l’assenza delle donne nello sviluppo della scienza. Numerose ricerche hanno mostrato come la presenza femminile nei contesti scientifici fosse nel passato eccezionale, nel senso di vera e propria eccezione. Questo dipendeva da questioni culturali e politiche, che si appoggiavano a una diffusa percezione delle donne come incapaci di dedicarsi alla scienza.
Non servivano prove, perché non essendoci donne che praticassero la matematica, la fisica, la biologia e così via, questa vaga idea non poteva essere smentita. Solo la tenacia di alcune donne eccezionali – stavolta nel senso di molto tenaci e dotate – permetteva saltuariamente di smentire i luoghi comuni - come raccontato nel volume di Nicolas Witkowski, Troppo belle per il Nobel (Bollati Boringhieri, pagine 164, euro 12,00). E solo l’insistenza di molti studi di storici e storiche (in italiano si veda il classico di Raffaella Simili, Scienza a due voci (Olschki, pagine 374, euro 42,78) ha permesso di stanare alcuni casi di mogli, sorelle, compagne, figlie di qualche importante studioso, facilitate dalla sorte ad accedere a una formazione avanzata. Per queste donne trovare epiteti autonomi non è sempre facile. Loro erano scienziate che ebbero una duplice buona sorte: godere di un naturale piglio verso questi studi e vivere vicino a un uomo di scienza. Ecco quindi uscire dall’ombra le astronome Sofia, sorella del celebre danese Tycho Brahe, o Caroline Herschel, moglie del grande William. Ci sono poi le studiose che furono eccellenti nel divulgare le scoperte di grandi scienziati maschi, come Madame du Chatelet, musa di Voltaire nonché esperta del calcolo infinitesimale di Leibniz e Newton; Maria Gaetana Agnesi, esperta della matematica di G. de L’Hôpital e protetta dal contesto familiare cattolico; o ancora Mary Sommerville, che tradusse e diffuse gli studi di Laplace.
Si tratta di avere pazienza, insomma, per scoprire che le donne, nonostante mentalità e ordinamenti istituzionali non le favorissero affatto, ce ne furono. Ma occorre volerle scoprire, trasformare queste indagini in storia e svelare la questione metodologica: come poteva la storiografia dei primi del Novecento, attenta a esaltare geni solitari e grandi scoperte per un’immagine di scienza trionfante e socialmente necessaria, dare valore a queste donne? La loro invisibilità non era un problema per nessuno, e facilitava la visibilità di uomini che non raramente rubarono loro idee importanti: sono noti i casi di Lise Meitner non convocata per ricevere il Nobel per la fissione nucleare, destinato al collega Otto Hahn, o Rosalind Franklin, che fotografò per prima l’elica del Dna sebbene Watson e Crick non la menzionarono mai esplicitamente. Al contrario, laddove nel passato la collaborazione professionale era stata supportata da affetto e rispetto, le donne venivano menzionate eccome. Come a dire, amare significa permettere di conoscere e gestire la conoscenza, dunque diventare autonome nella libertà di un rapporto paritario e reciproco. Oggi si percepisce meglio come la scienza sia basata sul lavoro di equipe e stupisce quasi l’esaltazione di nomi solitari. Importanti studi hanno mostrato l’importanza dell’eterogeneità di genere nei gruppi di ricerca, e penso in particolare alle filosofe Helene Longino e Sandra Harding, al momento non tradotte in Italia.
Alla luce di tutto ciò, la risposta alle domande in esordio diventa non banale. Essere uomo non è mai stata la condizione necessaria per pensare scientificamente e fare grandi scoperte. È stata invece la condizione privilegiata e la battaglia di coscienza diventa, pertanto, la creazione di condizioni di accesso e sostenibilità del mondo scientifico per una donna, cosa che ancora in molti paesi non è possibile. Ma una domanda si solleva, imperscrutabile visto l’approccio separatista nell’insegnamento di scienze e humanities: l’interesse di bambine e ragazze per le scienze potrebbe essere incrementato se fosse loro raccontata la storia della scienza, mostrando che essa non è avulsa da presenze femminili e che, soprattutto, non è estranea alla vita, alle grandi avventure, a una forte passione per l’umanità?