Hans Memling, “Angeli musicanti”, particolare, 1480 circa
Il 5 marzo 1967 veniva pubblicata l’istruzione Musicam Sacram, che si occupa della forma e della natura della musica all’interno della liturgia nel quadro della costituzione Sacrosanctum Concilium. L’anniversario è occasione per un convegno organizzato dal Pontificio Consiglio della Cultura in programma a Roma da domani a sabato dal titolo “Musica e Chiesa: culto e cultura a 50 anni dalla Musicam Sacram”. Il Convegno si propone “di stimolare una riflessione profonda – a livello musicale, liturgico, teologico e fenomenologico – che, oltre le polemiche sterili, possa essere una proposta positiva per un culto cristiano, espressione di lode a Dio nella diversità dei modelli culturali”. Tra i relatori, il cardinale Ravasi, che in questa pagina illustra il tema del convegno, i teologi Piqué e Salmann, i compositori Dall’Ongaro, Inwood e Battistelli, il preside del Pims de Gregorio.
Elie Wiesel, premio Nobel 1986 per la pace, morto lo scorso anno, in un suo libro aveva rispolverato una suggestiva allegoria giudaica. Quando Giacobbe, in fuga da Esaù, il fratello beffato, era giunto a Betel, secondo la Bibbia (Genesi 28,10-19) aveva avuto una visione: «una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa». Ebbene – continuava la parabola giudaica – alla fine gli angeli si dimenticarono di ritirare la scala che, perciò, rimase piantata sulla terra. È, così, divenuta la scala musicale le cui note angeliche permettono ancora a Dio di scendere e parlarci e a noi di ascendere in cielo per raggiungerlo. Questo intreccio tra musica e fede è, così, divenuto una costante per l’esperienza artistica e religiosa. È emblematico il fatto che Bach ponesse in capo alle sue composizioni la sigla “J.J.”, cioè Jesu Juva, “Gesù, aiuta!”, e le suggellasse con l’altra sigla “S.D.G.”, quel Soli Deo Gloria che esprimeva la sua convinzione che la gloria toccasse solo a Dio. La sua era una simbiosi sostanziale tra fede e musica, tra lode e canto, tra mistica e tecnica compositiva. È per questo che lo scrittore agnostico pessimista franco-rumeno Emil M. Cioran, nella sua opera Lacrime e santi non esitava a scrivere: «Quando voi ascoltate Bach, vedete nascere Dio… Dopo un oratorio, una cantata o una Passione Dio deve esistere… E pensare che tanti teologi e filosofi hanno sprecato notti e giorni a cercare prove dell’esistenza di Dio, dimenticando la sola!». Noi ci accontenteremo, ora, di tracciare solo un profilo simbolico della presenza della musica in quel “grande codice” della nostra cultura occidentale che è costituito dalle Sacre Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento.
All’interno della Bibbia c’è, infatti, una sorta di filo musicale che accompagna tutta la storia dell’essere e dell’umanità. Si tratta, però, di un approccio squisitamente teologico. La musica ha lo scopo di farci ritrovare un’armonia segreta e religiosa sottesa a tutta la realtà, anche a quella che può apparire “dissonante” o “assurda” (cioè “sorda”). La stessa creazione è affidata non a una teomachia, cioè a una lotta intradivina, come accade nella varie cosmologie dell’antico Vicino Oriente, bensì a un evento sonoro: «In principio... Dio disse: Sia la luce! E la luce fu» (Genesi 1,1.3). «In principio era la Parola... Tutto è stato fatto per mezzo di essa e senza di essa niente è stato fatto di ciò che esiste» (Giovanni 1,1.3). In un passo splendido dei discorsi finali di Dio che suggellano il libro di Giobbe il Creatore è raffigurato nell’atto di collocare la pietra di fondazione del cosmo, mentre «le stelle del mattino cantavano in coro e tutti i figli di Dio (cioè gli angeli) gridavano la loro gioia» (Giobbe 38,6-7). È per questo che lo stesso creato è concepito quasi fosse una musica cristallizzata, che ininterrottamente è disponibile all’ascolto umano: «I cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento proclama l’opera delle sue mani..., senza discorsi e senza parole, senza che si oda alcun suono. Eppure la loro voce si espande per tutta la terra, sino ai confini del mondo la loro parola» (Salmo 19,2-5). Commentava san Giovanni Crisostomo (IV secolo): «Questo apparente silenzio dei cieli è una voce più risuonante di una tromba: questa voce canta non ai nostri orecchi ma ai nostri occhi la grandezza di chi ci ha creati».
È suggestiva questa idea di una “musica silenziosa per la quale è necessario aprire una particolare sintonia o canale di ascolto. La musica, poi, per la Bibbia intride anche tutta la storia umana, esaltandola e rivelandone le tracce divine. La sua è, dunque, una funzione teofanica, svela cioè la presenza di salvezza o di giudizio di Dio all’interno delle vicende umane. Ci si imbatte, allora, in una lunga serie di canti di guerra il cui scopo è quello di mostrare l’azione del Dio liberatore: si pensi, per esempio, all’inno di Mosè durante la traversata del Mar Rosso (Esodo 15) o al cantico finale del libro di Giuditta (capitolo 15) entrambi accompagnati dall’evocazione di strumenti musicali. Ci sono, poi, i canti funebri, come quel capolavoro letterario che è l’elegia di Davide per la morte di Saul e Gionata, «lamento da insegnare ai figli di Giuda » (2 Samuele 1,17-27). Naturalmente anche l’amore genera musica, danza e canto; molti sono, perciò, i cantici nuziali: «Tu sei per loro», dice il Signore al profeta Ezechiele, «come una canzone d’amore: bella è la voce, e piacevole è l’accompagnamento musicale» (33,32). La donna del Cantico dei cantici è ritratta, nel mezzo di una danza vorticosa, segnata dal ritmo: «Voltati, voltati, Sulammita, voltati, voltati perché ti possiamo ammirare! Che cosa ammirate nella Sulammita durante la danza dei due tempi?...» (7,1-2). Anche il lavoro ha le sue canzoni. Stupenda è quella del vignaiolo proposta da Isaia (5,1-7): «Canterò per il mio amato la mia canzone d’amore per la sua vigna...».
Ezechiele, invece, propone persino un canto dei cuochi (24,3-12). Tutta la quotidianità è attraversata dalla musica che riesce a trasfigurare anche gli atti e i gesti più semplici. Si incontra anche una malinconica canzone della vecchia prostituta: «Prendi la cetra, gira per la città, prostituta dimenticata; suona con abilità, moltiplica i tuoi canti, perché qualcuno si ricordi di te!» (Isaia 23,15-16). Fondamentale, però, è l’intreccio tra musica e liturgia. Basti solo scorrere i titoli antichi preposti ai Salmi con l’evocazione delle melodie su cui intonarli e sovente con la citazione degli strumenti destinati ad accompagnarli. Il Salmo 150 elenca con minuzia l’organico dell’orchestra del tempio di Sion: corno, arpa, cetra, timpano, corde, flauti, cembali, cui si aggiungono le danze e la neshamahche può alludere ai “fiati” ma che, più probabilmente, significa “tutto ciò che respira”, immaginando così una sorta di canto cosmico dei viventi che si associa a quello intonato nel tempio.
L’appello del Salmista è, comunque, preciso anche nell’indicare la qualità estetica del canto liturgico: «Cantate inni con arte!» (Salmo 47,8). Il cristianesimo raccoglie questo invito: si pensi solo allo sterminato “paratesto” musicale che si è intessuto nei secoli in Occidente attorno ai Salmi e agli altri cantici biblici come il Magnificat o il Benedictus. Ma già san Paolo ammoniva i Colossesi così: «La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali...» (3,16-17). Esortazione reiterata agli Efesini: «Siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e salmeggiando al Signore con tutto il vostro cuore» (5,18-20). La stessa meta ultima della storia, simbolicamente raffigurata nella nuova Gerusalemme, sarà segnata dalla musica. Significativa al riguardo è la trama del libro dell’Apocalisse che è una vera e propria palingenesi musicale per soli, coro e orchestra: basta soltanto evocare il grandioso concerto delle sette trombe che squillano nei capitoli 7-8 e 11,14-19 oppure i cori che costellano quasi ogni pagina dell’opera rendendola simile a una partitura musicale.
È per questo che il tacere del canto è visto come un emblema di giudizio. Quando sulla Babilonia imperiale passerà la tempesta della condanna divina, «il suono degli arpisti e dei musicisti, dei flautisti e dei suonatori di tromba non si udrà più in te... Il canto dello sposo e della sposa non si udrà più in te» (Apocalisse 18,22). Ma già nell’Antico Testamento l’oppressione non poteva che essere affidata al silenzio, come dice lo stupendo e tragico Salmo 137: «Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo, ricordandoci di Sion. Sui salici, in mezzo a quella terra, appendemmo le nostre cetre. Sì, là ci chiesero parole di canto i nostri deportatori, canzoni allegre i nostri oppressori: Cantateci i canti di Sion! Come cantare i canti del Signore in terra straniera?». Cassiodoro, scrittore cristiano del VI secolo, ammoniva: «Se continueremo a commettere ingiustizia, Dio ci lascerà senza musica». Anche per la Bibbia il silenzio o il rumore sono segno di maledizione. È per questo che il filo della musica accompagna l’intera esistenza illuminandola. La fede, perciò, dovrebbe essere armonia e canto, come si ripete ininterrottamente nel Salterio (Salmi 33,3; 92,2.4; 147,1; 149,3): «Cantate al Signore un canto nuovo, suonate con arte e con ovazioni... Bello è lodare il Signore e inneggiare al tuo nome, Altissimo, sull’arpa a dieci corde, sulla lira e con canti accompagnati da cetra... Quanto è bello inneggiare al nostro Dio, quanto è affascinante innalzargli la lode!».