Una immagine di archivio della squadra di rugby degli Old Christians di Montevideo
Finale del campionato uruguayano di rugby del 1971: il calcio piazzato che decide la stagione. Arturo Nogueira si avvicina a Roberto Canessa e gli dice: «Muscolo, tocca a te calciarlo». Trasformato. Esultano… Avevano vent’anni, non erano timidi ma ribelli sì, in campo e fuori. Sognavano un mondo migliore, più leggero di un pallone: volevano solo divertirsi, studiare (Roberto era iscritto a Medicina), uscire con le ragazze, ma soprattutto giocare a rugby, per la loro “Santissima squadra”, gli Old Christians. L’eccellenza dell’ovale uruguayano, appena dopo un lustro dalla loro fondazione, nel 1965, all’interno del prestigioso college Stella Maris di Montevideo. Il laboratorio della futura classe dirigente di un paese, più vocato al fùtbol della Celeste e alle sue stelle uruguayane ma che d’un tratto scoprì il fascino, purtroppo tragico, del rugby. Anche Montevideo ebbe la sua “Superga”. Il “Grande Torino” (strage aerea di Superga, 4 maggio 1949) in questo caso, era la squadra più bella e giovane del rugby uruguagio. Valentino Mazzola e compagni morirono lassù, sulla collina torinese di ritorno da un’amichevole a Lisbona; il 13 ottobre 1972, i 45 componenti del club degli Old Christians (giocatori, dirigenti e parenti al seguito) fecero il loro ultimo volo mentre erano attesi a una partita in Cile. Un volo azzardato, dopo uno scalo forzato – per maltempo – a Mendoza, in Argentina. Ma l’aereo era un velivolo militare e per legge internazionale dopo 24 ore fu costretto a decollare. Su indicazione cilena prese quella rotta, fatale. Lo schianto sulla Cordigliera delle Ande, dopo aver sorvolato il centro abitato di Curicò. «L’ala destra centrò la cima di una montagna e si spezzò», il racconto dei sopravvissuti – alla fine saranno 16 –, e tra questi un ruolo determinante per il salvataggio lo giocò l’allora 19enne Roberto Canessa, ruolo: tre quarti ala degli Old Christians.
A chi ha visto i due film che narrano della drammatica vicenda che ha segnato la storia uruguayana (non solo sportiva), I sopravvissuti delle Ande (1976) diretto da René Cardona e il successivo Alive - Sopravvissuti (1993) di Frank Marshall, è vivamente consigliata la lettura dello straordinario resoconto in prima persona che Canessa – con Pablo Vierci – ha pubblicato in Uruguay nel 2016, ora mirabilmente tradotto in italiano (da Irene Pepicello) in Dovevo sopravvivere. Come l’incidente nelle Ande ha ispirato la mia vocazione a salvare vite (da ieri in libreria: Carlo Delfino Editore. Pagine 344. Euro 25,00). Le immagini delle due pellicole non rendono appieno l’intensità emotiva e la difficile scalata esistenziale, prima e dopo, dei superstiti che, nelle pagine di Canessa, incalza a un ritmo palpitante, quasi fosse una finale tra i Los Teros dell’Uruguay contro i Pumas argentini. Pagine in cui riaffiora il sangue delle vittime (12 morirono sul colpo dopo l’impatto, altre cinque nel corso della notte) e quelle dei corpi feriti rimasti intrappolati nelle lamiere e poi curati al “riparo” tra i rottami. La paura e lo sgomento di chi ce l’aveva fatta, miracolosamente. Ma dopo la presa di coscienza della tragedia scampata arriva- rono i crampi allo stomaco. La fame. Il cibo scarseggiava lassù in quell’inferno ghiacciato a 3600 metri di altitudine.
La filmografia, nuda e cruda, si è concentrata particolarmente sulle fasi cruente di antropofagia (cannibalismo) al quale furono costretti i giovani derelitti umani degli Old Christians nella loro sfida quotidiana per la sopravvivenza. Uno sforzo immane della durata di 72 giorni, in cui sì, una volta terminate le barrette di cioccolata e le sorsate rinfrancanti di vino, divennero anche i “Cannibali delle Ande”. Due mesi in stato di isolamento totale. Dopo una settimana le ricerche erano state archiviate e i ragazzi del rugby dati per dispersi. Per il governo di Montevideo vennero dichiarati «morti». Soltanto i parenti più stretti del team, l’amata Laura, la fidanzata e poi futura moglie di Canessa, e il veg- gente Gerard Croiset jr (profetico il suo: «Ho visto precipitare un aereo senza ali e con il muso schiacciato sul Passo Planchon») avvertirono forte la sensazione che quei ragazzi fossero ancora in vita. Una vita fuori dal mondo scandita da piccole pratiche quotidiane per non cedere allo sconforto, alla pazzia. Momenti durissimi in cui l’essere un gruppo allenato fisicamente e attento alle strategie del rugby, fece sì che tutta la squadra seguisse gli ordini impartiti dal “capitano” Marcelo Perez. Tutto veniva discusso, concordato ed eseguito dal team, ma il dominio di una natura feroce quanto avversa non poteva essere sventato. Impossibile evitare la valanga che si abbatté la notte del 29 ottobre. Altri otto rimasero sepolti sotto la neve. Per la seconda volta Nando Parrado era riuscito a placcare le tenebre della morte, e a quel punto si decise a tentare la giocata impossibile. Partire assieme al compagno Canessa per andare a cercare soccorso.
Il 12 dicembre si allontanarono lasciando gli altri quattordici sopravvissuti in balia della speranza di un ritorno a casa improbabile e la magra consolazione di qualche briciola di scorta, ancora a disposizione. Ma per quanto? In due giorni, Nando e Roberto salirono fino a quota 4600 metri trovandosi dinanzi lo spettacolo sconfortante delle maestose vette cilene. Da lì ridiscesero per una settimana intera e quando ormai tutto sembrava perso, un miraggio: le mucche al pascolo di Sergio Catalan. Il “buon pastore” che orgoglioso si fece immortalare con i due rugbisti e poi lanciò l’sos guidando i soccorsi alla vigilia di Natale del 1972. L’incubo era finito. Canessa e gli altri tornarono alle loro vite, che però ormai erano marchiate a fuoco come le bestie di Catalan. Per l’opinione pubblica erano dei divi e il loro club, forte del monito che ciò che non distrugge rende più forti, continuò a vincere in campo. L’Old Christians è il club più titolato d’Uruguay, per 18 volte ha conquistato la Primera División (la più recente nel 2016). Canessa giocò ancora e fu anche convocato in nazionale, ma la sua seconda esistenza – filosoficamente narrata nel libro – l’ha messa tutta al servizio degli altri, specie dei più piccoli. Oggi è un noto cardiologo pediatrico. Ha continuato a salvare vite, ma a lui l’ha salvata il rugby e quell’attimo di coraggio in cui seguendo il consiglio di Arturo andò a trasformare il calcio piazzato. Ah… l’arbitro l’annullò, ma non importa, quell’istante in cui ha smesso di “esitare” l’ha rivissuto ancora quando era sulle Ande. Se non avesse continuato a riascoltare il consiglio di quel compagno di squadra che morì tra le sue braccia, non potrebbe gridare al mondo «adesso non sarei qui. Forza, che la vita è dura, sebbene valga la pena viverla, anche nella sofferenza. Coraggio».