sabato 30 marzo 2019
Sei anni fa se ne andava il controverso ma amatissimo cantautore romano. Roberto Conrado, suo ex batterista, omaggia il “Califfo” con un libro fraterno, carico di affetto e di umanità
Califano, un “Poeta” vero... Tutto il resto è noia
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Sei anni fa, in 24 ore, in un solo colpo, l’Italia perdeva due pezzi da novanta del cantautorato: Enzo Jannacci e Franco Califano. Due poeti prestati alla musica pop. Due anime popolari assai più vicine alla gente di tanti principi e pseudoreucci della canzonetta. Uno, era il tribuno del popolo milanese, l’Enzo delle Scarp de’ tenis, l’altro er core generoso di quello romano, che al funerale, sulle note de L’ultimo amico va via, salutava commosso il suo “Califfo”. Funerali tristemente in contemporanea. Una beffa, perché di amici in comune, fuori e dentro l’intronata routine del cantar leggero, Enzo e Franco ne avevano parecchi. E lo si capisce meglio leggendo le pagine intense e amicali di Tutto il resto... (Pendragon. Pagine 166. Euro 15,00): il libro omaggio a un “padre ritrovato”e al “Poeta” che gli dedica il suo ex batterista e autore, Roberto Conrado. Dai ricordi delle lunghe notti passate in auto viaggiando, tra l’andata e il ritorno da un concerto («Franco se poteva, preferiva tornare a dormire a casa, a Roma»), esce il ritratto di una «vita senza limiti, questa era la sua strada». L’ultimo poeta sanamente maledetto di una Roma che non era più quella della dolce vita ma stava diven- tando a tratti impoetica e criminale.

La città pasoliniana dei Ragazzi di vita e del malaffare di Stato - impunito - di Petrolio. Ma anche la capitale della cocaina che iniziava a scorrere - diabolicamente ammaliante - e più bionda del Tevere. «Lui che parlava di libertà, decantandola quasi ossessivamente per ironia della sorte, se la stava facendo rubare proprio dalla coca», scrive Conrado che lo ha seguito e inseguito fino all’ultimo istante a quell’uomo verace, seducente, irresistibile allo sguardo femminile (e non solo). Il “Maestro”, eletto a tal rango fin da giovane ai tavoli del bar di via Gallia. Il pensatoio a cielo aperto di chi si sentiva un «artista e questo mi basta». Una sensibilità vicina a quell’umanità dal sorriso disperato che Califano accarezzava e sentiva come la sua gente: lucciole sempre accese davanti ai focaracci di Ponte Milvio, ladruncoli di stelle e pischelli sfacciati di borgata sempre a caccia di nuovi sogni. La Roma nuda scritta proprio con Conrado, ritratto fedele del Califfo triste e solitario che ammette a se stesso: «Piuttosto che sta’ solo dentro al letto / vado randagio in quarche vicoletto / cammino a piedi scarzi, armeno finchè t’arzi dormi e vedrai che manco me sentirai».

Quando si dice che Califano è stato un “Poeta, qualcuno, specie qui al nord dove l’idioma del “fratello milanese”, Jannacci, è più facile da masticare”, storce il naso. Li perdoniamo Conrado, perché magari non hanno mai avuto l’onore di ascoltare quei monologhi esilaranti sull’amore declinato verso tutti e sull’universo femmini-le, in cui Califano poteva giocarsela alla pari anche con un gigante teatrale come Carmelo Bene. Al di là che Tutto il resto è noia, diventata idiomatica anche per i millennials che si iniettano nelle orecchie rap e trap dalla mattina alla sera, solo un Poeta poteva collocare questa società liquida In un tempo piccolo in cui versare in un bicchiere versi come questi: «Dipinsi l’anima su tela anonima. E mescolai la vodka con acqua tonica. E pranzai tardi all’ora della cena. E mi rivolsi al libro come una persona...». Califano probabilmente non ha letto tanti libri, preferiva «vivere alla giornata», per le «strade di quartiere», portando a spasso la sua libertà, ma sapeva leggere fino in fondo al cuore delle persone.

Come ogni Poeta ha pagato un prezzo caro, specie per quel vizio... «Ma un drogato è soltanto un malato di nostalgia» canta ancora il suo “fratellastro” Renato Zero. Califano si è fatto due volte il “gabbio”, condannato ingiustamente, «quasi come Enzo Tortora», denuncia Conrado. Le sue lettere dal carcere indirizzate all’unico vero grande amore rimpianto, Laura, parlano di un uomo solo, di un dolore segreto, come quello che portò dentro di sè fino alla fine, Mimì: la “sorella” Mia Martini, alla quale il Califfo diede in dono una delle più belle canzoni del secolo scorso Minuetto. All’ultimo giro di giostra, scopriamo che si era avvicinato alla religione, trovando conforto in un prete amico al quale confessò: «Anche se Dio mi concedesse un’altra vita, probabilmente rifarei gli stessi errori». Irripetibile, inimitabile Califano (al di là delle macchiette riuscite di Fiorello e Max Tortora), persino nell’epitaffio che ha voluto fosse inciso sulla sua tomba ad Ardea: «Non escludo il ritorno».

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