Angelo Domenghini
Nel calcio del boom degli anni ’60 ci sono stati i tre “angeli dalla faccia sporca”, gli oriundi argentini Sivori-Maschio e Angelillo e poi c’era l’Angelo azzurro, Domenghini. “Domingo il favoloso”, il romanzo di Giovanni Arpino uscì nel 1975, ma quello poteva essere il titolo della grande avventura di Domenghini a Messico ’70. Il Mundial in cui il «cursore» - termine coniato apposta per lui dallo scriba massimo di calcio Gianni Brera - aveva asfaltato la fascia dello stadio Azteca. Nel calcio di poesia, Domingo è la massima espressione, quella della “solitudine dell’ala destra”. Bergamasco, di Lallio, classe 1941, chiuso per carattere e vocazione, «dicono che sono un orso, ma gli orsi possono essere pericolosi - sorride - io invece no», dice dal buon ritiro di Liscia di Vacca, un angolo di paradiso caraibico in quella Sardegna in cui è venerato come tutti gli eroi che fecero l’impresa del Cagliari tricolore del 1970. Otto mesi l’anno Domenghini li passa qui, con gli amici di sempre e ripassando i ricordi di una vita da campione.
Chissà quanti tifosi, magari anche personaggi eccellenti, che gli ricordano gli anni d’oro vissuti nel mondo del calcio?
«No, macché. I miei veri tifosi sono stati i miei genitori. Si sono ammazzati di fatica per crescere noi 9 figli. In casa eravamo in 11, la famiglia è stata la mia prima squadra di calcio, ma mista, c’erano sei sorelle. Papà e mamma gestivano l’osteria di Lallio: cucina della nonna, bocciofila e fiumi di rosso di Manduria ai tavoli per gente che lavorava. Alla domenica tutti a giocare a carte sotto il pergolato con i grappoli di uva americana sopra le teste… Un’altra era, un’altra Italia».
Affianco all’osteria c’è la chiesa e il campetto dell’oratorio dove il piccolo Angelo ha fatto i primi dribbling con gol a grappoli.
«Lì mi vide don Antonio e mi portò al Verdello, poi mi fece firmare per l’Atalanta. Ma al mattino lavoravo da apprendista alla fabbrica Magrini e al pomeriggio mi allenavo. Ero un fuscello, pesavo 52 chili. A un certo punto l’imprenditore Visentini e il direttore sportivo dell’Atalanta Tentorio si misero a tavolino chiedendosi: “Lo tengo io a fare l’operaio o serve più a voi come calciatore?”. Tentorio rispose: “ Va bene, da domani Angelo non viene più a lavorare”. Avevo 18 anni, feci salti di gioia fino al soffitto dell’officina. All’Atalanta mi davano 150mila lire al mese».
Una fortuna per un ragazzino fine anni ’50…
«Una bella somma, ma certo oggi fa ridere perché sento di calciatori di 18-20 anni che strappano 8-10 milioni di euro al primo contratto. Roba da matti, non sono d’accordo, ma è il mondo che hanno voluto quelli che comandano il calcio di adesso».
Diventa maggiorenne, a 21 anni allora, e con l’Atalanta vince l’unica Coppa Italia conquistata dalla Dea nella sua storia, anno di grazia 1963.
«Però l’Atalanta di Gasperini ora ci ha superati vincendo l’Europa League. Sono contento. Per me i due momenti più belli vissuti a Bergamo furono il debutto in Serie A (perdemmo con l’Udinese ma io non stavo nella pelle) grazie a Ferruccio Valcareggi che aveva sempre stravisto per me, e poi quella finale di Coppa Italia con il Torino che finì 3-1 e io firmai una tripletta da sogno.
Tripletta a San Siro sotto gli occhi attentissimi degli osservatori dell’Inter che un anno dopo la portarono alla corte del patron Angelo Moratti e del “Mago” Helenio Herrera.
«Fu un bel salto, prima di tutto economico. All’Atalanta prendevo 1 milione e Moratti sul primo contratto scrisse al volo 15 milioni. Stavo svenendo. Comprai subito un Duetto Alfa Romeo. Giravo per le strade di Milano e mi sembrava di toccare il cielo con un dito».
È vero che comprò anche una televisore per i suoi genitori e suo padre non lo accettò?
«Vero, disse: “A me vedere Mike Bongiorno alla tv non mi serve a niente”. Mio padre era un uomo pratico e per farlo felice bastava che gli regalassi una lavatrice o un qualsiasi elettrodomestico che poteva servirgli al locale».
Con quell’Inter diventa ricco e vincente: tra il 1964 e il ‘65 sale sul tetto d’Europa e per due volte su quello del Mondo.
«Ricco no, ma vincente sì. Eravamo uno squadrone e io feci la mia parte. Con Herrera avevo un rapporto buono, così come con tutti i miei compagni. In ritiro ci cambiavano sempre di stanza e non posso dire di essermi legato a uno in particolare. Ero giovane ma capii subito che dovevo il massimo rispetto per i “senatori”: Sarti, Picchi, Burgnich, Facchetti… Spero che i giovani di adesso si comportino allo stesso modo con i loro veterani».
Con Burgnich e Facchetti avete alzato anche la Coppa di campioni d’Europa nel ’68 e nelle due finali contro la Jugoslavia Domenghini fu anche decisivo.
«Nella prima finale, all’80’, tirai quella bordata su punizione e così segnai il gol dell’1-1 con cui andammo alla ripetizione. Nella seconda finale, quella che vincemmo 2-0 entrai nelle azioni dei gol di Riva e Anastasi. Quello di Riva era in fuorigioco? Io non l’ho visto, ma sono passati quasi sessant’anni, c’è la prescrizione».
Oggi forse la Jugoslavia (che tra l’altro non esiste più) si sarebbe appellata al Var.
«Infatti io sono contrario al Var. Per un motivo molto semplice: la responsabilità è giusto che se la prendano gli uomini e non l’intelligenza artificiale. All’epoca c’era la terna arbitrale, ora sono pure in quattro, allora questo Var a cosa serve?».
L’anno dopo quel trionfo azzurro, nel ’69, l’Inter la vende al Cagliari, quale fu la sua reazione?
«La presi male, ero molto dispiaciuto, mi sembrò una retrocessione. Il Cagliari aveva delle ambizioni ma dovemmo dimostrare partita dopo partita di essere i più forti. Fu una grande rivincita vedere la gioia della gente di Sardegna alla quale avevamo regalato un sogno. Non scorderò mai la felicità che ho visto negli occhi dei miei compagni e del nostro allenatore, il grande Manlio Scopigno».
Dopo quell’impresa storica nel suo destino ci fu anche la “partita del secolo”, Italia- Germania 4-3.
«Disputammo una gran partita contro i tedeschi ma è sbagliato continuare a chiamarla la “partita del secolo”, perché quella nel caso sarebbe stata la vittoria in finale contro il Brasile. Io quel 4-1 non l’ho mai digerito sa. Fino al 65’ eravamo sull’1-1 e sono sicuro che se avessimo avuto un giorno in più di riposo probabilmente Pelè e i suoi compagni brasiliani non sarebbero diventati invincibili come hanno scritto».
Quindi se le chiedo meglio Pelè o Maradona lei cosa mi risponde?
«Sa cosa gli rispondo? Meglio Domenghini… In quel Mondiale del ’70 io non mi sono sentito inferiore a nessuno, neppure a Pelè. Se potessi rigiocarla quella partita sono sicuro che finirebbe diversamente, forse la vincerei».
Quando ha smesso non sognava di allenare una delle sue tre squadre del cuore, Atalanta, Inter e Cagliari?
«Ho allenato per 12 anni e siccome le grandi, come quelle, non mi cercavano ho sempre accettato tutte le proposte che mi arrivavano, dall’Olbia fino alla Battipagliese. Non ho vinto, ma almeno mi sono divertito e alla Sambenedettese, fine anni ’80, si ricordano ancora di mister Domenghini perché giocammo un calcio stupendo ».
All’Inter comunque c’è tornato da osservatore: qualche nome di talento che ha scoperto?
«Più che scoperti visti e relazionati tutti i migliori venti campioni che vanno dall’epoca dell’Inter di Fraizzoli fino a quella di Massimo Moratti. Ma non me ne hanno preso nessuno di quei talenti. E stessa sorte è toccata anche a molti miei colleghi. Prendere i campioni già fatti è un gioco da ragazzi, prendere un ragazzo che diventerà un campione è invece un mestiere che sanno fare in pochi».
Parla con un pizzico di distacco riguardo al mondo del calcio…
«No, continuo a seguirlo, vedo le partite alla tv e vedrò anche gli Europei. Alla Nazionale di Spalletti manca un po’ di fantasia, e quella farà sempre la differenza. Però, siccome questo calcio qua punta tutto sulla corsa e la forza fisica, allora l’Italia è sullo stesso piano delle altre nazionali. Rivincere l’Europeo per gli azzurri non sarà facile, ma quello che conta è che si formi un gruppo competitivo per i prossimi Mondiali del 2026, non possiamo permetterci un’altra assenza, sarebbe la terza di fila, non sia mai».
Ha detto un calcio basato sulla corsa , quindi Domenghini sarebbe stato convocato per Euro 2024?
«Spalletti una maglia numero 7 credo che me la darebbe, perché di gente che salta l’uomo come facevo io non ne vedo mica tanta in giro».
C’è un sogno che “Domingo il favoloso” non ha ancora realizzato?
«Il sogno è vivere bene e in salute a Dio piacendo, perché mi sono appena ripreso da qualcosa di cui non mi ricordo neppure… Però mi ricordo che a volte sono stato un po’ orso e invece proprio in questi mesi ho scoperto di essere tanto amato, a cominciare dai miei figli fino alla gente che non conoscevo e che ha voluto testimoniarmi tutta la sua stima e il suo affetto. Certi messaggi li conservo e mi fanno stare meglio, mi fanno capire che forse qualcosa di buono devo aver fatto nella mia vita».