La bandiera giallorossa: Bruno Conti, 67 anni, dal 1973 alla Roma
«Buongiorno ragazzi!», ogni tanto al mattino appena sveglio, «sempre verso le 11», Bruno scrive sul telefonino quando deve comunicare con i ragazzi dell’82: gli azzurri del “Vecio” Enzo Bearzot che assieme a lui fecero l’impresa al Mundial di Spagna. Un trionfo epocale, sotto gli occhi vispi e la pipa accesa del «Presidente partigiano», Sandro Pertini. Quarant’anni dopo, quel ragazzino, piccolo dalle scarpe strette e la maglia n.7 – ma di un altro pianeta, e non a caso è nato a Nettuno, nel 1955 – è diventato un pilastro del nostro calcio. Bruno Conti, «il più brasiliano degli italiani», incoronato il migliore del Mundial da “O Rei” Pelè in persona. L’eterna anima giallorossa. Una squadra una vita, la sua Roma, dal 1973 ad oggi. Conti, stella fissa di Trigoria dove è coordinatore tecnico del settore giovanile, dai 10 ai 16 anni. La Roma per Bruno è un amore infinito, come quello per Laura, la compagna di sempre: la moglie, la madre di Andrea e Daniele che gli hanno dato cinque nipoti. Una bella famiglia italiana che ha radici profonde che partono da quella casa di via Romana a Nettuno dove con i genitori viveva Bruno e i suoi fratelli («sei»).
Una storia vera di calcio e delle belle famiglie di una volta, da raccontare, come ha fatto con gli assist di Giammarco Menga (Premio Coni 2017 per Sportivamente D’Annunzio) nell’autobiografia Bruno Conti. Un gioco da ragazzi (Rizzoli. Pagine 200. Euro 17,00 – verrà presentato il 25 marzo al Teatro Manzoni di Roma – ). Un libro necessario, da distribuire nelle scuole calcio del Paese per far comprendere, specie a chi inizia oggi a giocare, che un campione del mondo è fatto sì di tecnica e fantasia, ma prima di tutto di valori. «Quei valori che si stanno perdendo in questa nuova epoca, dove tutto è veloce, troppo veloce e dove spesso la mancanza di regole e di educazione condiziona la vita sociale di giovani e meno giovani », scrive Bruno alla fine di un memoriale denso di pagine di un’epica domestica.
Perché i suoi eroi sono le persone semplici del paese, gli amici di sempre che lo amavano molto prima che diventasse una leggenda del pallone. «Ma soprattutto, i miei eroi sono papà Andrea e mamma Secondina », sottolinea. La madre amorevole che l’ha cresciuto a buone maniere e fettuccine e un padre, lavoratore indefesso («attaccava alle quattro del mattino e staccava alle 7 di sera») cultore della sobria normalità, orgoglioso di quel figlio campione e che ad ogni evento pubblico si presentava con la cravatta giallorossa del suo Bruno: «La prima cravatta della divisa che da ragazzino mi diedero alla Roma». Il “pischello” che in inverno giocava a calcio e in estate praticava il baseball, lo sport che a Nettuno avevano portato i marines americani sbarcati ad Anzio nel gennaio del ’44.
E fu papà Andrea che disse «no» a quei dirigenti americani che, in accordo con quelli del Nettuno volevano portare il giovane Conti in California.
Vero. Prima si oppose mio fratello maggiore e poi papà: gli disse che avevo 14 anni ed era troppo presto per andare così lontano dalla famiglia. Ma lo ringrazio ancora per quel «no», perché ho continuato a divertirmi giocando per la strada e al campo di baseball del paese. E poi, senza quella rinuncia non sarei mai diventato un giocatore della Roma e della Nazionale.
Ma anche alla Roma all’inizio gli dissero di «no». Troppo basso e mingherlino, sentenziò Helenio Herrera che non fu certo un “Mago” nella circostanza...
A quell’età, e oggi lo dico per la mia lunga esperienza di settore giovanile, non è sempre facile ipotizzare le potenzialità di un talento. Io, a differenza di molti ragazzi di adesso che al primo gol passano per fenomeni e che poi si abbattono o si perdono alla prima bocciatura, non soffrivo per quei provini andati male dove puntualmente mi accompagnava zio Fiore. È stato lui, prima degli allenatori, ad aver intuito che il calcio era il mio destino: zio Fiore si divertiva a vedermi giocare. Per me calcio e baseball erano prima di tutto un divertimento e mai avrei pensato di diventare un campione, contava solo il gioco.
Un gioco che il giovane Conti portava avanti assieme al lavoro.
Tornassi indietro una sola cosa non rifarei, abbandonare la scuola. Ho smesso in quinta elementare per andare a fare il mattonatore e poi il commesso in un negozio di casalinghi. Il calcio certo mi ha formato, ma un piano B nella vita serve sempre e quello te lo dà solo la cultura. Quando la Roma mi mandò in prestito al Genoa presi la licenza di terza media in una scuola serale, poi tornai in giallorosso e alle prime conferenze stampa mi chiudevo in bagno: avevo paura di affrontare i giornalisti. Non sapevo parlare, mi sentivo inadeguato... Perciò oggi ai giovani della Roma ricordo sempre: divertitevi con il calcio, ma non trascurate lo studio, che quello vi tornerà sempre utile.
L’anno prossimo festeggerà le nozze d’oro con la Roma, 50 anni di alta fedeltà.
Non dimenticherò mai il primo giorno che sono arrivato al Tre Fontane, ad accogliermi c’era Agostino Di Bartolomei. Il suo sorriso dolce e quella pacca sulle spalle mi fecero capire che lì ero come a casa mia. Agostino alla Roma è stato un leader silenzioso, il corrispettivo di Gaetano Scirea in Nazionale. Entrambi se ne sono andati via troppo presto, ma il loro esempio resterà in eterno e va trasmesso alle nuove generazioni.
Nel libro, più che le formazioni in cui ha giocato cita a memoria le squadre di autisti, magazzinieri, massaggiatori... Quelli che “Totonno” Juliano al Napoli chiamava le «basse forze».
I successi di una società da sempre dipendono anche da queste persone umili e preziosissime che lavorano nell’ombra. Noi calciatori, diventati ricchi grazie al calcio, provenivamo da famiglie altrettanto umili, perciò non potevano voltarci dall’altra parte e non aiutare questi lavoratori della Roma anche economicamente. Ricordo il nostro dirigente accompagnatore Fernando Fabbri che per anni girava con una macchinetta che lo lasciava puntualmente a piedi. Allora, con la squadra facemmo una colletta per fargli trovare un’auto nuova con tanto di fiocco giallorosso. Quando la vide Fernando si mise a piangere... E noi commossi quanto lui.
Commozione e lacrime di gioia al Santiago Bernabeu la notte dell’11 luglio 1982 in cui alzava la Coppa del Mondo sotto il cielo di Madrid.
Ricordo le lacrime di papà il giorno dopo, quando venne al Quirinale con me dal Presidente Pertini che ci conferì il cavalierato. Il primo giorno da campione del mondo lo passai con Bearzot a mangiare... mezzo chilo di noccioline Omega-3 – sorride – . Ci chiamavano le “scimmiette”. Per me Bearzot è stato un secondo padre, mi aprì le porte della Nazionale quando mai avrei pensato di disputare quel Mondiale.
Nella settimana del derby del Cupolone (domenica c’è Roma-Lazio) scopriamo che quelle porte azzurre si aprirono fatalmente per uno “scivolone” di un laziale, Vincenzo D’Amico.
Il “7” al Mundial d’Argentina era Franco Causio e per Spagna ’82 il ct puntava su Vincenzino, che è da sempre un amico. Abbiamo fatto il militare insieme e giocato nel Cos Latina, dopo la partita andavamo a mangiare la pasta al sugo cucinata da sua madre. D’Amico era un fenomeno, fece l’errore, come racconto anche nel libro, di far notare a Bearzot che lui nella Lazio giocava a sinistra e così aveva vinto lo scudetto del ’74... Il ct non gradì, mise me al suo posto all’ala destra e debuttai in Nazionale contro il Lussemburgo. Poi la gara successiva all’Olimpico contro la Danimarca feci un partitone e quella maglia azzurra non me la sono più tolta.
Dopo il Mondiale arrivò il tanto atteso scudetto con la Roma, stagione 1982-’83.
Il massimo dalla vita. Solo io e Francesco Totti siamo riusciti a far tanto qui alla Roma. Quello mio era un gruppo fantastico, forte in ogni reparto dalla difesa guidata dal giovane e saggio Ubaldo Righetti, a centrocampo con “Ago” Di Bartolomei c’era un giovanissimo Carletto Ancellotti che già ragionava da allenatore in campo. E in attacco il “Bomber”, Roberto Pruzzo con cui avevamo vinto il campionato di B al Genoa con Gigi Simoni allenatore.
E poi c’era l’«ottavo re» di Roma: il brasiliano Paulo Roberto Falcao, con il quale in allenamento però, tra voi, ci furono scintille...
Le partitelle settimanali erano una simulazione importante in vista della sfida della domenica, nessuno di noi ci stava a perdere e magari ci scappava qualche entrataccia... Ma finiva lì, senza strascichi. L’arrivo di Falcao alla Roma cambiò la mentalità della squadra che diventò vincente. La finale persa ai rigori con il Liverpool? Un gran dispiacere, davanti alla nostra gente all’Olimpico. Io e Ciccio Graziani sbagliammo dal dischetto per la gioia di quel mattacchione di Grobbelar (il portiere che combattè nella guerra civile in Rhodesia, ndr). È andata così, è un gioco...
Quella notte non servì neanche l’amuleto: la catenina di Mario Maggi, il mago personale del “Barone” Nils Liedholm.
Con quella avevo vinto Mondiale e scudetto era inevitabile che la magia si interrompesse – sorride divertito – . Liedholm credeva ciecamente al mago Maggi, quando salivamo in trasferta a Milano alloggiavamo a Busto Arsizio a una decina di chilometri da casa sua. Era uno dei tanti rituali di Liedholm, come i nostri scarpini sistemati di nascosto quando eravamo fuori dallo spogliatoio, stessa strada da Trigoria alll’Olimpico e sul pullman stesso posto a sedere, seconda fila lato autista. Era tollerato anche il rito di Toninho Cerezo che portava il cuscino sul bus e dormiva steso a terra sul corridoio. Quante risate...
Sorrisi e canzoni in quegli anni formidabili.
Al Mundial di Spagna “rubai” di nascosto la cassetta di Franco Battiato a Antonio Cabrini: rimasi folgorato da Cuccurucucù. Era diventato il mio secondo inno dopo quello di Mameli. Anzi il quinto, perché in testa ho sempre avuto le tre canzoni dedicate alla mia squadra: Forza Roma, Forza Lupi di Lando Fiorni e poi Roma capoccia e Grazie Roma di Antonello
«Grazie Bruno!» fu invece il coro lanciato da Rossella Sensi quando nel 2005 gli chiese di prendere in corsa una Roma allo sbando, a un passo dalla B.
Ci salvammo a Bergamo con gol di Antonio Cassano... e pure quel giorno piansi di gioia. Antonio? Un fuoriclasse, non l’ha aiutato la testa, altrimenti con i piedi ha sempre fatto quello che voleva.
Quanti talenti ha visto perdersi tra i tanti che ha seguito alla Roma? Preferisco ricordarmi i tanti talenti che ce l’hanno fatta, come Francesco Totti che è e sarà sempre l’immagine della Roma più bella. Così come Daniele De Rossi. Il mio sogno è che prima o poi nascano altri due come Francesco e Daniele, ma anche che il calcio, in un mondo che cambia continuamente, resti prima di tutto un bel gioco, per tutti.