A metà dell’Ottocento, il socialista e 'cartista' inglese Ernest Jones replicò alla vanteria secondo la quale sull’Impero di Sua Maestà il sole non tramontava mai, con la battuta scudisciante che in quella superficie sterminata di domini e possedimenti pure il sangue non asciugava mai. L’elenco dei crimini compiuti dai colonialisti britannici, nell’arco di quattro secoli, è impressionante: si va dalla tratta degli schiavi alla repressione delle sollevazioni dei repubblicani irlandesi, dalle tre guerre dell’oppio cinesi al soffocamento delle insorgenze indiane. Sarebbe in ogni caso sbagliato pensare che la morsa di ferro degli inglesi abbia allentato la presa all’avvicinarsi della decolonizzazione: al contrario, alcuni degli episodi più efferati della dominazione britannica si sono svolti, per così dire, fuori tempo massimo, tanto che si può parlare di un vero e proprio colpo di coda dell’imperialismo targato 'Union Jack'. Ce ne offre un esempio illuminante lo storico marxista inglese John Newsinger, il cui
Libro nero del colonialismo britannico viene ora proposto in edizione italiana ( 21 Editore, pagine 390, 15,00 euro). L’autore mostra anzitutto come anche il Regno Unito abbia i suoi 'armadi della vergogna'. Soltanto in anni recenti, infatti, in occasione della causa intentata contro il governo di Londra da quattro kenioti vittime di orrende torture negli anni Cinquanta del secolo scorso, dal sancta sanctorum degli archivi coloniali di Hanslope Park, nel sudest dell’Inghilterra, è emersa un’intera, imbarazzante collezione di carte 'smarrite': 294 scatoloni contenenti 1.500 fascicoli riguardanti le atrocità compiute in Kenya sulle etnie ribelli, in particolare i Kikuyu. È la pagina di tenebra della rivolta dei Mau Mau, che provocò, entro la fine del 1954, lo sradicamento della popolazione in maggioranza Kikuyu dai distretti ove era insediata, e l’internamento di 77.000 persone. Per stroncare la guerriglia dei Mau Mau, il governo britannico ricorse a misure spietate. Risultato, 1.090 ribelli impiccati e altri 11.503 uccisi nel corso di scontri, per non parlare dell’endemico ricorso alla tortura. Tanto che Newsinger arriva a chiedersi «come sia stato possibile che governi inglesi guidati da figure rispettabili quali Winston Churchill, Anthony Eden e Harold Macmillan siano stati in grado di gestire lo scandalo senza che l’opinione pubblica chiedesse spiegazioni». La risposta a questa domanda retorica giunge appena poche righe dopo: «Il ministro delle colonie Alan Lennox-Boyd, negli anni Trenta simpatizzante dei fascisti, dopo il suo ritiro ammise con franchezza di essersi lui stesso impegnato attivamente in «operazioni di insabbiamento a favore delle forze di sicurezza». Altre pagine ignominiose sono quelle riguardanti la gestione 'terroristica' delle carestie che colpirono vari territori sottoposti al dominio inglese. L’ultima, in ordine di tempo, fu quella che s’abbatté sul Bengala, nel 1943-44, provocando la morte per fame di 3,5 milioni di uomini, donne e bambini. Churchill fu inflessibile nell’impedire che scorte di granaglie destinate alla Madrepatria, e provenienti da altre zone dell’Impero, fossero dirottate per soccorrere le masse indiane. A un suo fedele sostenitore, dentro il Partito conservatore, come Leo Amery, non celerà il suo disprezzo razzistico per i poveri sudditi della regione asiatica: «Io gli indiani li odio. Sono un popolo di bestie, con una religione da bestie». Non era andata molto diversamente, un secolo prima, con la spaventosa carestia che ferì l’Irlanda, a causa di un fungo infestante che distrusse i raccolti di patate. I tuberi costituivano la principale fonte di sostentamento per la popolazione dell’isola, che venne falcidiata dalla denutrizione. I governanti di Londra, asserragliati nelle gabbie mentali del loro liberismo darwiniano, non mossero un dito per aiutare gli irlandesi. Risultato: un milione di morti e un altro milione costretto, per sopravvivere, a emigrare al di là dell’Atlantico. Un altro, grande peccato storico che grava sulla coscienza della nazione britannica è quello riguardante la tratta degli schiavi. L’autore quantifica in almeno 3 milioni la cifra complessiva dei neri trasportati su navi inglesi, dall’Africa alle Americhe, dal 1690 fino all’abolizione della schiavitù, nel 1807. Newsinger è polemico verso la corposa tendenza culturale, in atto oggi in Gran Bretagna, che punta alla rivalutazione del passato coloniale come veicolo di civilizzazione. Un’atmosfera da revival che ha contagiato anche l’attuale premier conservatore, David Cameron, secondo il quale è giunta «l’ora di smettere di scusarsi». Una posizione poco giustificabile, perché sarebbe invece arrivato il momento di fare i conti con una sanguinosa eredità di sangue che ha ipotecato lo stesso percorso della decolonizzazione, con esiti ben visibili ai giorni nostri. Del resto è un fatto che, complice il silenzio del circuito mediatico inglese, molta parte dei sudditi di Sua Maestà ignori completamente l’ecatombe provocata dalla carestia del Bengala. Una strage rimossa che meriterebbe il nome di genocidio.
Un'immagine simbolo della carestia che devastò il Bengala.