Ci si perde, alzando il tiro delle proposte? Nel caso di Angelo Branduardi non si direbbe: se si considera che al cospetto del successo mondiale di
Alla fiera dell’Est, album nobile ma pur sempre pop, non sfigurano i risultati delle sue più recenti, evolute, avventure.
L’infinitamente piccolo, lauda teatrale su san Francesco, ha registrato infatti 350 repliche (sinora); e
Futuro Antico, riletture filologiche di musica colta dei secoli scorsi, è approdato al sesto volume. Insomma, Branduardi tenendo fede alla propria autodefinizione («Sono un uomo che cerca, nella vita e nell’arte»), continua a spiazzare restando popolarissimo. E diciamolo pure: chi l’avrebbe mai detto, quando l’artista presentò il disco sul Santo di Assisi? «Non i discografici», chiosa lui. «Loro mi risero in faccia. Per poi comunicarmi entusiasti che pur senza riscontri mediatici il disco vendeva…».
Quando ha sentito limitante fare musica pop?«Pur sottolineando che "pop" significa "popolare" e che la forma canzone è cultura, io non volevo fare pop. Fu un produttore a dirmi "Ma perché non canti?". Sarà stato l’aspetto particolare, non so. Proposi
Confessioni di un malandrino ma non sapevano come collocarla sul cosiddetto mercato; poi presi più coraggio e scrissi
Alla fiera dell’Est. Ci misi nove mesi a trovare qualcuno che pubblicasse quel disco, mancavano parole d’ordine ideologiche, non "funzionavano" testi di ispirazione spiritual-religiosa… Però quando Trossat lo pubblicò, in otto mesi era nel mondo. Ma forse molto è stato incidente di percorso: infatti ora sono tornato alle origini».
A partire da «L’infinitamente piccolo»?«La svolta è stata quella, sì. Dopo cd esibizionisti come
Pane e rose, delirio di onnipotenza nell’elettronica. Ma già nell’85, cantando Yeats, davo sfogo alle stesse esigenze che mi hanno portato a san Francesco e
Futuro Antico. E lo testimonia proprio il live
Senza spina appena uscito, concerti acustici dell’epoca: mi guardavano come un matto…»
Ma certi suoi dischi come questi, che senso hanno per lei ora? Le servono a tenere un piede nell’industria?«No: ho capito in fretta di essere di nicchia. Solo che di nicchie ne ho in tutto il mondo. Dunque posso fare quanto voglio, e nulla perché tengo famiglia».
Anche all’estero l’ultimo Branduardi è accolto bene?«Sì, non c’è più grande differenza con l’Italia. Quando suonai la prima volta a Monaco, l’8 gennaio 1978, ricordo un silenzio pazzesco, per me che venivo da lattine sul palco e l’urlo "la musica è nostra". Oggi siamo cresciuti. Ho presentato
Futuro Antico VI a Roma davanti a 8mila persone: la musica del Barocco richiede ascolto silenzioso, e così è stato. Forse se non si vendono dischi è solo perché fanno schifo. La gente la avverte, la qualità».
Quindi la crisi non c’è, secondo lei?«C’è nella misura in cui la musica colta è divenuta una casta intoccabile: e l’ispirazione popolare in questi casi scema, mi insegnava un mio maestro, Diego Carpitella, noto etnomusicologo. E la musica "pop" di oggi infatti scimmiotta. La mia risposta? Proprio
Futuro Antico: la musica è tanto importante per l’uomo che è decisivo saperne la storia portandola a tutti. Per capire sul serio chi siamo e chi saremo».
Ma lei pensava che «Futuro Antico» funzionasse così?«No, il primo fu un divertimento. Solo che vendette dieci volte un cd di classica. Così si è creato un meccanismo virtuoso di commissioni di vari enti, che mi porterà al settimo volume e in Europa. Scrivere su commissione è un aiuto, se si sa quel che si fa. Ma bisogna essere umili per provare strade mai battute… Anche se io, è vero, lo faccio pure per provocare».
Anche san Francesco provoca?«Sicuramente c’è chi nell’ambiente pop-rock non ha apprezzato. Ma a me interessa di più aver scoperto il bisogno dei giovani di conoscerlo. E portarlo a teatro con la Lauda ha fatto crescere anche il mio modo di pormi dal vivo: più sereno, meno aggressivo».
Ed ora? Branduardi seguirà solo queste strade?«No, sto tenendo da conto anche spunti pop. Del resto, essendo uno che cerca, non so dove troverò…»