L’emblema per eccellenza della fede cristiana è affidato proprio a una «generazione», quella che corre tra il Padre e il Figlio, un filo paterno-filiale animato dall’amore che è lo Spirito Santo. Potremmo, perciò, dichiarare che «in principio» c’è la generazione, cioè nell’eternità stessa della trascendenza divina si compie incessantemente quell’evento che si riprodurrà – sia pure con le debite differenze – anche nell’umanità. Il generare è, quindi, la grande analogia per parlare del Dio trinitario. E questa generazione è professata nel Credo per il Cristo che «è generato e non creato, della stessa sostanza del Padre». Se questa è la suprema radice della fede cristiana, si ha però uno sviluppo successivo nell’Incarnazione, quando la solenne genealogia che apre il Vangelo di Matteo si avvia verso quella meta fondamentale: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo» (1,16). Come si ha la generazione
ab aeterno nel mistero dell’intimità divina, così si ha una maternità divina e una generazione nella storia. È su questa scia che la generazione umana diventa un grande paradigma che certamente determina la sequenza genealogica dell’umanità, ma che ospita al suo interno un’ulteriore presenza, come potremo vedere seguendo proprio il percorso generazionale biblico. A livello umano si potrebbe a lungo riflettere sul valore di questa esperienza radicale. Basterebbe solo pensare all’anello genealogico che unisce
Padri e figli già nel titolo del celebre romanzo che lo scrittore russo Ivan S. Turgenev pubblicò nel 1862, innestandovi tutta la complessità e persino la drammaticità di una simile relazione che non è meramente genetica e biologica, ma anche culturale, sociale e psicologica. E proprio a proposito di psicologia è facile intuire quanto si sia scavato e poi ricamato sul nesso paternità-filiazione con tutta la sua zavorra di "complessi" e di tensioni. Il pensiero va da Freud e da tanti altri cultori della psicoanalisi fino alla ricreazione letteraria di tale fenomeno: potremmo scegliere come esempio il notissimo
Padre padrone di Gavino Ledda (1975), trasformato in un efficace e intenso film dai Fratelli Taviani nel 1977 (tra l’altro, anche il titolo
Padri e figli si è associato a un film del 1957 di Mario Monicelli, ma con una trama diversa da quella del romanzo di Turgenev). Il nostro obiettivo, però, punta verso le pagine bibliche. «Una generazione se ne va, una generazione subentra su una terra eternamente ferma». È Qohelet-Ecclesiaste, in apertura al suo libro sapienziale realistico e amaro (1,4), a descrivere il flusso incessante delle generazioni: l’ebraico
dôr probabilmente presuppone qualcosa di circolare come un accampamento di tende nomadiche (non per nulla in arabo la stessa radice lessicale definisce sia la «circonferenza» sia l’«abitazione»). L’immagine dell’antico sapiente biblico è, comunque, potente: la terra, «eternamente ferma» e uguale, assiste indifferente alla morte delle creature viventi e alla nascita di nuovi esseri in un circolo ininterrotto. Essa è come un palcoscenico fisso sul quale si passa costantemente dalla tragedia alla festa, dalla fine all’inizio. Non a caso nelle lingue semitiche orientali come l’accadico, lo stesso termine
dôr designa la «durata» della realtà che è paradossalmente finita per i viventi e interminabile per le cose. Questa immagine del filo generazionale, che si snoda lungo l’asse del tempo, appartiene ovviamente a tutto il patrimonio esistenziale e culturale dell’intera umanità. Già il celebre
Canto dell’arpista, un testo egizio del 2000 a.C., registrava il fenomeno in un contesto pessimistico, dedicato alla caducità dell’essere umano: «Le generazioni passano via; altre ne succedono, così che i giovani subentrino al posto degli antenati». Un altro sapiente biblico, il Siracide, ricorreva a un’immagine poetica fragrante per descrivere secoli dopo (II secolo a.C.) la stessa vicenda: «Come delle foglie spuntate su un albero verdeggiante l’una cade e l’altra sboccia, così sono le generazioni di carne e di sangue: l’una muore, l’altra viene all’esistenza» (14,18). In sintesi possiamo dire che le generazioni sono il simbolo essenziale per descrivere quella categoria fondamentale dell’esistenza umana che è il tempo, con la sua finitudine e fragilità. Eppure la scelta biblica di riconoscere proprio nel tempo e nella storia la teofania, cioè la rivelazione divina, rende il flusso generazionale una sorta di terra santa vivente a cui viene assegnato un rilievo teologico. È per questo che curiosamente, come insegna il parallelismo rigoroso che regge il passo di Genesi 1,27, l’«immagine di Dio» a tutti disponibile è l’umanità in quanto maschio e femmina, vale a dire nella sua capacità generativa: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò». La rappresentazione più luminosa dell’opera creatrice di Dio è, quindi, nella procreazione umana: si spiega in tal modo perché la cosiddetta Tradizione Sacerdotale (VI secolo a. C.) – una delle strutture testuali del Pentateuco – costruisce la storia della salvezza su una sequenza di genealogie (chi vuole averne una prova, legga di seguito questi passi:
Genesi 1,28; 2,4; 9,1.7; 10; 17,2.6.16; 25,11; 28,3; 35,9.11; 47,27; 48,3-4). È ancora in questa linea che si colloca il contenuto reiterato della promessa divina fatta ad Abramo e ai patriarchi: «Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle! Tale sarà la tua discendenza… Renderò la tua discendenza come la sabbia che è sulla spiaggia del mare» (
Genesi 15,5; 22,17). Non si dimentichi, poi, che l’ingresso di Cristo nel mondo è affidato da Matteo (c.1) e Luca (c.3) a una genealogia che procede di anello in anello lungo la storia biblica. Ma le generazioni che incarnano il tempo che scorre sulla terra non sono solo una ribalta in cui è all’opera il Signore Salvatore. Sono anche l’orizzonte nel quale l’umanità custodisce e trasmette la sua fede e offre a Dio la sua risposta di lode e di ringraziamento. Emblematica in questo senso è la narrazione della Pasqua ebraica, così come è descritta nei capitoli 12-13 dell’
Esodo e come sarà ancor più marcata nella successiva
haggadah giudaica, ossia nel racconto della liberazione dalla schiavitù egiziana durante il
seder, il rituale pasquale, attraverso un dialogo tra padre e figlio, cioè tra le due generazioni. Per il sacrificio dell’agnello pasquale, si legge nell’Esodo: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne… Quando i vostri figli vi chiederanno: Che significato ha per voi questo rito? Voi direte loro: È il sacrificio della Pasqua del Signore, il quale è passato oltre le case degli Israeliti in Egitto, quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case» (12, 14. 26-27). Poi, per il rituale dei pani azzimi, si ripete la stessa formulazione: «In quel giorno spiegherai a tuo figlio: È a causa di quanto ha fatto il Signore per me, quando sono uscito dall’Egitto» (13,8). Infine, per la prassi del riscatto del primogenito di ogni famiglia si ribadirà: «Quando tuo figlio un domani ti chiederà: che significa ciò?, tu gli risponderai: con la potenza del suo braccio il Signore ci ha fatto uscire dall’Egitto, dalla condizione servile» (13,14). La trasmissione della fede avviene, dunque, attraverso il filo vivente delle generazioni ed è mirabile a questo riguardo la lunga strofa d’apertura del Salmo 78 che, prima di elencare gli articoli di fede della storia salvifica e quindi del Credo di Israele, esalta la catechesi generazionale, per cui veramente i padri sono «i primi maestri della fede» per i loro figli, come suggerirà il Concilio Vaticano II (
Lumen Gentium n.11). Ecco soltanto alcune battute di questa lunga premessa del Salmo che contiene una teologia della "tradizione" autentica: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, narrando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie da lui compiute… perché le conosca la generazione futura, i figli che nasceranno. Essi poi si alzeranno a raccontarle ai loro figli perché ripongano in Dio la loro fiducia…» (si legga il Salmo 78,3-8). La generazione antica trasmette, dunque, il messaggio della salvezza a quella più giovane in una catena viva e ininterrotta, sorretta dallo Spirito del Dio creatore e salvatore. «Si parlerà del Signore alla generazione che viene… perché Dio mantiene la sua alleanza per mille generazioni» (Salmo 22,31; Deuteronomio 7,9). Anche Maria nel suo cantico, il
Magnificat, esprime luminosamente lo stesso tema quando proclama che «di generazione in generazione la misericordia [di Dio] si stende su quelli che lo temono» (Luca 1,50). Dio e uomo s’incontrano proprio su quel fiume generazionale che è la storia stessa della vita umana: essa, così, si trasfigura in storia della salvezza.