L’attore Fabrizio Bentivoglio in una scena della serie tv “Monterossi”, in onda su Prime Video
«Cos’erano? Erano anni che non mi divertivo così...». Parli con Fabrizio Bentivoglio e torna alla mente la sua voce roca e il timbro milanese doc con cui scandisce quella battuta, detta in Marrakech Express. Una frase diventata slogan esistenziale dell’ultima generazione di sognatori, i figli degli anni ’80. Quei ragazzi, ormai adulti, che si sono nutriti anche dei film di questo attore, ex talento delle giovanili dell’Inter («sognavo di diventare un Mariolino Corso... ma il ginocchio mi ha tradito »), che, a sua volta, è figlio del cinema dei due «maestri»: Gian Maria Volonté e Marcello Mastroianni. Dal primo, Volonté, ha appreso l’impegno civile che ha messo in personaggi come il giudice Giorgio Ambrosoli in Un eroe borghese di Michele Placido o incarnando Pietro Nava ne il Testimone a rischio di Pasquale Pozzessere. Del secondo, di Mastroianni, oltre alla recitazione misurata e quell’aurea da involontario Latin lover (brano di Lucio Dalla che rimanda al suo personaggio in Come due coccodrilli, di Giacomo Campiotti) ha seguito il monito paterno: «Fabrizio, non fare mai la televisione!». Ma adesso con la serie crime di Monterossi, diretto dal più british degli italici registi, Roan Johnson, dentro al piccolo schermo c’è finito anche lui. Dà voce e volto a Carlo Monterossi (protagonista dei romanzi di Alessandro Robecchi), autore televisivo e piccolo eroe esemplare della resistenza alla tv trash che ormai impera un po’ in tutti i canali dell’etere. E magari, per uno come Bentivoglio che fino a poco tempo fa pensava che la “piattaforma” «fosse quella cosa lì in mezzo al mare da dove estraggono il petrolio» quella di Prime Video di Amazon, dove vengono trasmessi i sei episodi di Monterossi, è un po’ una scialuppa di salvataggio per i telespettatori. E forse, per il protagonista è un’altra “Isola delle rose”, come quella grande utopia artificiale in mezzo all’Adriatico romagnolo, raccontata nel film di Sydney SibiliaL’incredibile storia dell’Isola delle rose, per cui Bentivoglio ha vinto il David di Donatello come miglior attore non protagonista. Il terzo in carriera, oltre alla Coppa Volpi al Festival di Venezia come miglior attore in Un’anima divisa in due di Silvio Soldini.
Insomma, dopo Monterossi tv e cinema sono così vicini o così lontani?
Quando Mastroianni mi diceva di non fare televisione era il 1993, un’epoca in cui cinema e tv erano meno imparentate di oggi. Per chi faceva il cinema, la fiction televisiva veniva vista come un nemico, un qualcosa di molesto come le interruzioni pubblicitarie nel bel mezzo del film. Intollerabile...
Quanto c’è di Bentivoglio nel personaggio della serie?
Siamo entrambi entrati in un’età in cui ci è concessa la libertà di dire sempre la verità. Monterossi è un uomo libero e questo lo rende romantico. Non ha nessun timore nel dire che ne ha piene le scatole di Crazy Love (il talk melenso condotto da Carla Signoris), della creatura televisiva che ha inventato. Essere coerenti con se stessi e con le proprie idee rende comunque vincenti anche quando si viene sconfitti, per il semplice fatto che l’idealista convinto non ha mai smesso di sognare. E il sognatore è sempre un vincente.
Qual è il sogno di Monterossi?
Lui sogna ancora la tv dei Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini: la macchina da presa che va in mezzo alla gente per ascoltar la voce e gli umori del Paese reale. Odia invece l’ospite pettinato, le banalità gratuite e volgari che sono al centro degli interessi commercia-li, e che alla fine plagiano i sentimenti delle persone, che, ormai, nella vita di tutti i giorni vengono scavalcati dalla finzione. Il dramma che Monterossi avverte sulla sua pelle è che la realtà, con le sue verità, non interessa più a nessuno.
La verità giornalistica era al centro de La giusta distanza, uno dei film più belli di Carlo Mazzacurati, in cui lei interpreta il cronista di provincia, Bencivenga.
L’incontro con Carlo Mazzacurati è stato uno dei più importanti del mio percorso di attore. È cominciato con La lingua del santo e finito con La sedia della felicità, il suo ultimo film prima di morire (nel 2014). Non capita sempre di lavorare più volte con lo stesso regista, molto spesso nel nostro mestiere ci si incontra e ci si saluta per poi magari non ritrovarsi più... Il “miracolo” è quando si aprono dei piccoli cicli.
Un altro “ciclo” importante è stato quello con Gabriele Salvatores.
Gabriele venendo dal teatro possiede anche il talento di riuscire sempre a creare il gruppo di lavoro, come faceva agli inizi con la Compagnia dell’Elfo. Il cast della sua “trilogia”, Turné, Marrakesh Express e Puerto Escondido, era come una squadra di calcio in cui ognuno ha giocato al meglio il proprio ruolo. E quella battuta, «erano anni che non mi divertivo così» – sorride – , sicuramente fotografa uno stato d’animo e un momento della mia vita in cui era proprio così, divertente...
Molto prima del cinema c’è stato il teatro e la Scuola del Piccolo del grande Strehler. Come è stato il rapporto con “re Giorgio” che lo fece debuttare a vent’anni neLa tempesta di Shakespeare?
Strehler e i suoi spettacoli, come Il Campiello o Il giardino dei ciliegi, hanno formato il mio gusto teatrale. Al provino mi sconsigliarono di portare il Macbeth, perché per ragioni che non ho mai saputo, Strehler non gradiva quel testo, e così ripiegai sull’Amleto. Attaccai con il monologo di Ecuba, e lui in fondo alla sala lo ripeteva con me, a memoria. A un certo punto lo recitava avanzando lentamente lungo la platea... fino a dirmi, «basta, va bene così!». È un’immagine che mi torna spesso in mente e che mi fa stare bene.
Quali sono le cose che la fanno stare male, come uomo e come attore?
La cattiva politica che non ha il rispetto della verità. Aver interpretato personaggi come il giudice Ambrosoli svela un Paese che ha creato dei carnefici e delle vittime che sono diventate dei “martiri involontari”. Sono storie di uomini che fanno parte dei troppi buchi neri che costellano la “Storia” d’Italia, che ha ancora interi capitoli di verità taciute, e che forse non sapremo mai. Abbiamo solo la certezza che molte cose non sono andate per il verso giusto...
Molti suoi colleghi attori durante il lockdown hanno scritto le loro autobiografie, noi abbiamo immaginato un Bentivoglio che tornava alla sua vecchia passione, la musica.
Non ho fatto né l’uno né l’altro. Vent’anni fa con il Quintetto di Musicanormale pubblicai il disco Sottotraccia La musica è un grande amore, come si vede anche in Monterossi, Carlo ascolta uno dei due miei cantautori preferiti da sempre, Bob Dylan, l’altro è Fabrizio De Andrè di cui conservo una copia autografata dell’album Le nuvole... Stupendo... Come stupendo è stato quel tour con la Piccola Orchestra degli Avion Travel con cui portammo in scena l’operina musicale, La guerra vista dalla luna.
Alla chitarra c’era il tocco inconfondibile di Fausto Mesolella (morto nel 2017), al quale ha dedicato il suo film Lascia perdere Johnny!, che è rimasta la sua prima e unica regia.
Quel film, con Peppe e Toni Servillo nel cast, è stato un omaggio a un amico e a un maestro come Fausto che mi ha fatto scoprire la magia della chitarra... Quando lo rivedo penso che non è niente male e che forse un’altra capatina dietro la macchina da presa prima o poi vorrei farla...
Intanto prossimamente sarà sul grande schermo con Il ritorno di Casanova che segna anche il ritorno con Salvatores, otto anni dopo Il ragazzo invisibile.
Quello di Casanova è un personaggio che per certi versi rimanda a Monterossi: ha quell’età in cui non puoi più definirti giovane, ma non accetti che gli altri ti diano del “vecchio”. Casanova non ne vuole sapere di invecchiare, e in questo rispetto a lui io sono avvantaggiato... Avere dei figli piccoli, preoccuparmi dei loro problemi e dei due anni che gli ha “rubato” la pandemia, mi fa stare con i piedi per terra e accettare anche le ferite di questo nostro tempo.