Icavalli, sono ventotto, scalpitano nelle stalle, mentre il circo è tutto un fragore. Messala, prima dell’inizio della gara, è convinto della vittoria: «Avresti dovuto startene alla larga», dice a quello che un tempo era stato come un fratello. Ben Hur gli risponde: «Avresti dovuto uccidermi ». Messala: «Lo farò». Non andrà proprio così, ma con il suono delle trombe inizia una delle corse nello stadio di Antiochia divenuta una icona del cinema storico di tutti i tempi, una delle scene più famose di Hollywood. Che torna, con quel dialogo, sullo schermo.
Nel 1959 era stato Charlton Heston a interpretare il principe ebreo, e Stephen Boyd il tribuno romano. Il film divenne subito storia, con contorno di storie: 11 premi Oscar, William Wyler in trionfo, sceneggiatori licenziati uno dopo l’altro, un anno solo per le ricerche e la preparazione dei diversi set, Cinecittà occupata, molto panico, il produttore Sam Zimbalist stroncato da infarto – forse per eccessivo stress –, colonna sonora, tre ore di musica, scritta dal famoso Miklós Rózsa, costo finale di quasi 16 milioni di dollari d’allora.
E una certezza: che dopo le versioni mute del 1907 e del 1925 – quest’ultima un vero capolavoro, girata da Fred Niblo con un grande, intenso Ramon Novarro – nessuno avrebbe mai tentato, o rischiato, di portare nuovamente sullo schermo il romanzo storico che Lewis Wallace aveva scritto nel 1880, lui generale americano durante la Guerra civile, spirito avventuroso, fervente cristiano. Il suo Ben-Hur: una storia di Cristo, tradotto in Italia nel 1900 e rimasto uno dei più venduti best seller di tutti i tempi, non poteva mettere nuovamente in pericolo produttori e conti bancari.
O, in modo intemerato, scatenare paragoni. Per questo Timur Bekmambetov, regista kazako da alcuni anni di stanza a Los Angeles, venuto alla ribalta per una saga di vampiri, ha esitato per lungo, lunghissimo tempo prima di accettare l’offerta, quasi folle (ed effettivamente negli Stati Uniti dove è uscito il 19 agosto, è stato un flop), della Paramount, che gli ha proposto di girare una nuova versione di Ben-Hur, sugli schermi italiani dal 29 settembre.
«Quello del 1959 non è solo un film – afferma convinto –, è un fenomeno che ha influito molto sulla cultura del ventesimo secolo. Pertanto la mia prima risposta è stata: “assolutamente no”. Poi ho letto la sceneggiatura, la storia è ancora incredibilmente significativa, le emozioni e le azioni dei personaggi conservano, a distanza di secoli, una risonanza moderna. Il potere, l’avidità e il successo – come ai tempi dell’Impero romano – governano il mondo, le persone cercano di ottenere tutto in una gara sempre più dura e solo pochi si rendono conto che i veri valori, quelli senza tempo, sono la collaborazione e il perdono».
Così la produzione, stanziati 100 milioni di dollari, è tornata in Italia, a Matera per gli esterni e a Cinecittà per gli interni, in quei teatri che avevano ospitato Wyler e nei quali Jack Huston, Giuda Ben-Hur, ha recitato pensando non poco al nonno John, che lì aveva girato La Bibbia. Questa nuova versione, anche nella impostazione del personaggio – meno provocatoria ed eroica, più riflessiva e dubbiosa –, si differenzia non poco dalla precedente, anche per la durata (poco più di due ore rispetto alle tre e mezzo), scelta che ha costretto a una maggiore sintesi e a sfrondare il film di ampi risvolti e scene, che Wyler aveva, invece, mantenuto rispetto al romanzo. Soprattutto è il lungo soggiorno romano del protagonista – dopo essere stato messo ai remi in catene sulla galera romana, costretto alla battaglia in mare, girata da Wyler in modo davvero impressionante e scandita con un senso del dramma impareggiabile, infine scampato alla morte –, a sparire del tutto, insieme al personaggio del console Quinto Arrio, che lo adotta, e a quello di Baldassare, uno dei Magi.
Mentre acquistano spessore e presenza i familiari di Ben-Hur e soprattutto la figura di Gesù. Allora, per una ben precisa scelta di regia, nelle tre volte che appariva, non parlava e non mostrava mai il volto, rimanendo fuori campo oppure venendo oscurato. Questa volta la produzione ha voluto costruire l’inimicizia prima e la fratellanza riconquistata poi tra Ben-Hur e Messala ( Toby Kebbell) proprio a partire dalle parole e dai gesti di Cristo: lo si vede quando pialla un asse di legno nella sua bottega, quando salva un poveraccio dalla lapidazione e, parlando di compassione, diviene, come dice un romano, «il più pericoloso dei nemici»; prega poi a lungo nel Getsemani, Pietro taglia l’orecchio al soldato romano, Cristo conferma di dare la sua vita liberamente e, scena indimenticabile, prima aveva offerto l’acqua all’ebreo reso schiavo e in catene, gesto ricambiato da questi lungo la Via Crucis, fino alla crocifissione, girata sulle brulle pendici che circondano Matera.
Rodrigo Santoro si colloca nell’iconografia classica: «Ho voluto creare il ritratto di un uomo che andasse oltre il mito – confessa l’attore che interpreta Gesù – riconoscibile nei suoi insegnamenti, nel suo spirito mite, in tutto ciò che lo rende unico e universale. Una tremenda responsabilità ». Tutto è confortato, nel film, da una autenticità che investe le grandi scene di massa e quelle di più riflessiva intimità. La corsa delle quadrighe, girata nello stadio di Cinecittà Studios, è ancor più spettacolare: trentadue giorni per girarla, quasi una gara di Formula 1 dell’epoca, affetti digitali ridotti al minimo, utilizzati per non compromettere la sicurezza e le vite degli animali e degli attori.
Per entrare, invece, nella psicologia dei personaggi, Bekmambetov si attarda a presentarli nella loro complessità emotiva in tutta la prima parte del film, in modo piuttosto statico: sono Esther (Nazanon Boniadi), innamorata di Ben-Hur; Tirzah, la sorella (Sofia Black-D’Elia), innamorata di Messala; e la madre, Naomi (Aylet Zurer), che ha cresciuto il romano come un figlio. Si ammassa su di loro il fato e diventano facile bersaglio sia della ribellione degli ebrei (molto più presente e incombente, tanto che non è la famosa tegola caduta dal tetto a innescare la tragedia) sia della repressione dei romani.
Poi c’è Morgan Freeman, che interpreta Sheik Ilderim, e il suo personaggio beneficia di un forte ampliamento rispetto a quello del 1959: è un mentore, un benefattore, a tratti cinico, ma generoso. Averlo offerto a un attore di colore è un preciso segno di attualità. Tutti, in fondo, hanno un percorso interiore che si abbevera della presenza di Gesù: il film è molto più concentrato sul perdono e la conversione, che non sulla vendetta. Sotto la pioggia battente che bagna Gerusalemme quando il Messia china il capo sulla croce, nessuno rimane indifferente, tanto più se toccati dal miracolo.
E Bekmambetov, colpito dall’eco delle tragedie di oggi, che creano nemici incapaci di offrire perdono, in un finale carico di significati si attarda sulla cavalcata che riunisce l’ebreo e il romano, tornati fratelli. Insieme vanno, ignari, verso il futuro del loro mondo.