Esce in questi giorni in libreria il volume «Le domande dei bambini su Dio» (Lindau, pp. 232, euro 19,50), nel quale il benedettino bavarese Anselm Grün – autore di molti volumi di spiritualità tradotti anche in italiano – e il noto pedagogo e divulgatore Jan-Uwe Rogge spiegano «Come l’educazione spirituale rafforza la famiglia». Qui pubblichiamo uno stralcio del capitolo «I bambini cercano la propria strada».
I bambini sono diversi e ciascuno è unico. Teologicamente potremmo dire che in ogni bambino Dio pronuncia una sua parola, espressa soltanto in quel determinato bambino. Ognuno è una parola di Dio incarnata. O, in altri termini, ogni bambino è un’immagine unica e irripetibile di Dio. Ogni bambino è un sogno di Dio sull’uomo. I genitori hanno il compito di tenere sempre presente questa particolarità e unicità dei figli. Non sapranno esprimere con parole chiare l’immagine di Dio che si manifesta nel loro bambino perché, così come non ci si devono formare immagini di Dio, non bisogna crearsene neppure dell’uomo. Tuttavia, se si è consapevoli dell’immagine unica di Dio nel bambino, si rimane aperti a ciò che il bambino ha di speciale, al suo carattere individuale; non ci si fissa su un determinato modello. Il teologo e psicologo americano John Bradshaw sostiene che i bambini sono spirituali di per sé, seguono l’atteggiamento naturale «io sono quello che sono», che si può tradurre anche con «io sono io». Un bambino l’avverte chiaramente. È spontaneo, è se stesso. Perciò Bradshaw scrive: «Credo che l’adesione al nostro io sia il nucleo essenziale di ciò che ci rende simili a Dio. Se una persona ha il senso di questa qualità, è in armonia con se stessa e può accettarsi. I bambini ne sono capaci per natura. Se osservate un qualsiasi bambino, riconoscerete in lui quell’espressione che dice: 'Io sono chi sono'». La ferita più profonda che i genitori possono infliggere ai figli è quella spirituale. Il bambino è deriso nella sua unicità. È costretto nell’immagine che ci si fa di lui. Se si fida dei propri sentimenti ed esprime i giudizi che ha nella sua anima genuina, si ride di lui. Così è costretto ad adattarsi e a negare la consapevolezza originaria e il senso della propria unicità. Bradshaw dice: «La ferita spirituale è la principale responsabile del fatto che diventiamo dei bambini cresciuti non autonomi, pieni di vergogna. La storia del declino di ciascun uomo e di ciascuna donna racconta di come un bambino meraviglioso, prezioso, speciale, unico abbia perso la sua percezione di 'io sono chi sono'». I bambini pieni di vergogna non osano più essere se stessi, gli preme soltanto di essere accettati e apprezzati dagli altri, di adeguarsi ai giudizi esteriori, di piacere, insomma. I figli sono ospiti che chiedono la strada, dice una frase molto citata. Ma non domandano soltanto per avere risposte dagli adulti; pongono domande perché osservano il mondo, che li meraviglia, li spaventa e li induce a riflettere su ciò che vedono. I bambini sono filosofi – un’altra constatazione tanto valida quanto comprensibile – che non sono solamente curiosi ma, a modo loro, trovano anche delle risposte: talvolta in tutta serietà, tal altra sottintese, talvolta pratiche, tal altra spiritose e davvero buffe. L’apprendimento – anche quello religioso – non avviene solamente attraverso programmi didattici (per quanto ben concepiti e ponderati), un bambino fa esperienze istruttive anche non pianificate, senza un accompagnamento pedagogico, a casa, a scuola o all’asilo. Quando i bambini crescono e si mettono in cammino per esplorare e conoscere il mondo intorno a loro, quando non gli bastano più le sicurezze familiari, quando varcano i confini per conquistare le terre al di là di essi, quando fanno (come devono) esperienze nuove, ignote e insolite, quando si trovano ad affrontare sfide esistenziali, mettono in discussione molte cose, compresi se stessi, e improvvisamente il sapere acquisito non è più sufficiente. A partire dal terzo o quarto anno di vita i bambini pongono due domande importanti, alle quali desiderano ottenere risposte che li prendano sul serio e li apprezzino nelle loro competenze: da dove vengo? Dov’ero prima di essere qui con voi, prima di venire in questo mondo? E: io morirò? Voi morirete? Sono domande filosofiche sull’inizio e sulla fine, sull’origine e sull’evoluzione. Chi mi dà sostegno, protezione e sicurezza affettiva quando mi metto in cammino, quando mi allontano dal luogo familiare e sicuro? Dietro queste domande si nasconde il desiderio di essere accettati e in buone mani, di disporre di legami sicuri con persone fidate. Lo psicologo sociale Uri Bronfenbrenner ha sottolineato che ogni bambino, ogni giovane ha bisogno di una persona alla quale essere legato in modo irrazionale, emozionale, una persona della quale potersi fidare incondizionatamente. Nella ricerca di protezione, sostegno e sicurezza affettiva è insita anche la ricerca di Dio: Dio Padre e Dio Madre, al quale potersi abbandonare perché altrimenti si sarebbe abbandonati e non si avrebbe il coraggio di uscire nel mondo per diventare una persona autonoma. Gaby von Thun ha scritto su questo argomento un libro di straordinaria sensibilità. Ha chiesto a dei bambini di disegnare la loro immagine di Dio offrendo loro l’opportunità di esprimersi in proposito. Alla domanda su come si immaginasse Dio, un bambino ha risposto: «Dio me l’immagino come una persona che ci osserva! E guardandoci ride e le sue risate donano la pace a noi uomini qui in Terra. E ci dona il sole! Ogni tanto fa piovere per rinfrescarci perché sa quand’è troppo caldo per noi». Bambini e giovani che lasciano il porto sicuro per affrontare le tempeste della vita hanno bisogno di quelli che lo psicanalista Donald Winnicott ha chiamato «oggetti transizionali»: simboli, oggetti, rituali che aiutano a sopportare l’autonomia e l’indipendenza. Per alcuni bambini sono l’orsacchiotto, la copertina, il ciuccio; o per dirla con le parole di Tamara, 10 anni: «Ho una volpe di pezza. Si chiama Ricki, è color salmone e ha la coda bianca. Mi aiuta sempre quando sono nei guai, quando ho bisogno di lei. Magari sa anche parlare e pensare. Potrebbe essere, no? Oppure sta su una nuvola in cielo? Può anche darsi».Potrà sembrare strano, parlare di Dio come di un «oggetto transizionale». Eppure, in un’epoca in cui i rapporti personali sono talvolta fragili e incerti, i legami simbolici acquistano importanza perché esistono sempre e ovunque. A un certo punto del loro sviluppo, molti bambini non necessitano più di oggetti transizionali reali, bastano loro quelli contenuti in simboli e immagini. I disegni nel libro di Gaby von Thun lo testimoniano: Dio come luce, stella, sole, luna. I bambini sono creativi e sanno definire con precisione le proprie cognizioni. Non divagano. Le immagini infantili contengono la divinità e l’anarchia, parlano del Paradiso, dell’Inferno e del Purgatorio; in esse fantasia e realtà si fondono indissolubilmente. «Mosè ha attraversato il mare a piedi. Probabilmente c’era bassa marea» scrive Leona, 7 anni, che forse è stata con i genitori sulle coste a basso fondo del Mare del Nord. È impareggiabile, poi, il dialogo tra Mario, 9 anni, e Thomas, 7: «Costruisco col Lego una torre fino a Dio – dichiara Mario –. Così salgo fino a lui!». «Poi caschi di sotto – commenta imperturbato Thomas – e muori». «Tanto – ribatte fulmineamente Mario – se muoio torno subito su». Dio come stimolo, come sfida, ma anche come consolazione, come sicurezza ultima. Ed è di questo che hanno bisogno i bambini quando si allontanano per sviluppare l’autonomia e l’autocoscienza. Proprio nelle storie, ma anche nelle immagini, si creano spazi simbolici «per sopportare il fatto di essere soli senza sprofondare nella solitudine, per far fronte ai compiti e alle sfide di questo mondo senza perdersi, per reggere al dolore e conservare la speranza», come scrive la pedagoga della religione Helga Kohler-Spiegel.Immagini e spazi simbolici confortano, rendono sopportabili le perdite: «Il mio angelo custode è mio fratello – scrive Aulona, 11 anni –. Purtroppo è in cielo… Non l’ho conosciuto bene ma so che aspetto aveva. Se fosse ancora vivo avrebbe 13 anni. È il mio angelo custode e lo sarà sempre». Ad ascoltare le storie che i bambini raccontano di Dio vi si scoprono dei veri tesori e messaggi: una fiducia nelle proprie capacità che può essere vissuta soltanto se ci si sente protetti da legami e rapporti sicuri, con Dio, con l’angelo custode. È la fiducia nel lieto fine, non come in una soap opera o in un drammone hollywoodiano, bensì grazie alla consapevolezza di poter fare conto sulle forze creative delle proprie idee e fantasie, sul potenziale delle immagini interiori (di Dio). I bambini si esprimono in storie nelle quali descrivono dettagliatamente esperienze (religiose). Riflessivi e dotati di senso dell’umorismo, raccontano storie su «Dio e il mondo», sulla gioia e la sofferenza, sulla paura e il modo di affrontarla, sul desiderio di un angelo custode che ci tenga una mano sul capo e di un Dio amorevole che ci dia sostegno e protezione.