mercoledì 17 luglio 2024
Per la bioeticista «la privacy celebrale è minacciata dall’integrazione di sensori mentali in ogni dispositivo multifunzionale indossabile»
Nita Farahany

Nita Farahany - WikiCommons

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Un gruppo di scienziati del California Institute of Technology ha pubblicato poche settimane fa uno studio su Nature Human Behaviour in cui si dà conto di impianti cerebrali in grado di decodificare il linguaggio interno - identificando le parole cui due persone hanno pensato senza muovere le labbra né emettere alcun suono. Sebbene la tecnologia sia ancora in fase iniziale - funziona con una manciata di parole e non con frasi compiute - potrebbe avere applicazioni cliniche per pazienti non più in grado di parlare. Dispositivi simili di interfaccia cervello-computer, che traducono le attivazioni cerebrali in testo, hanno raggiunto velocità di 62-78 parole al minuto per alcuni pazienti. Ma tali dispositivi sono stati istruiti per interpretare espressioni almeno in parte vocalizzate o mimate. Lo studio di Wandelt e colleghi è il primo a cogliere dall’esterno parole solo “pensate”, registrando in tempo reale l’attività di singoli neuroni. Si tratta del sogno (o dell’incubo) della lettura della mente, che le nuove neurotecnologie stanno rendendo qualcosa di molto concreto.

Si tratta di strumenti avanzati che possono monitorare o modificare il funzionamento del cervello. Si va dall’imaging cerebrale (come la risonanza magnetica funzionale) ai dispositivi di stimolazione cerebrale fino, appunto, alle interfacce cervello-computer. Sono tecnologie sviluppate per aiutare persone colpite da gravi deficit o patologie, ma che possono anche essere usate per scopi ricreativi (per usare i videogiochi) o per scopi militari (per lo più sconosciuti). Se, come nel caso dell’impianto realizzato da Neuralink di Elon Musk, si vuole ridare mobilità a un tetraplegico, lo scopo è più che lodevole. Preoccupazioni etiche e legali sorgono però con il potenziale uso delle neurotecnologie per il controllo dei comportamenti, ancorché con un obiettivo condivisibile. In Cina si è testato un caschetto, imposto ai conducenti di treni ad alta velocità e tecnici di centrali nucleari, che valuta la stanchezza mentale e i cali di attenzione, in modo da aumentare la sicurezza dei lavoratori e dell’intera società.

Per questo è urgente una riflessione allargata sulla prossima diffusione di strumenti capaci di agire sulla nostra mente. Lo ha fatto la studiosa Nita Farahany nel suo libro Difendere il nostro cervello. La libertà di pensiero nell’era delle neurotecnologie, appena tradotto da Bollati Boringhieri (pagine 288, euro 27). Farahany, sulla base di una formazione interdisciplinare in biologia, genetica e giurisprudenza, è docente di Diritto e Filosofia presso la Duke University, negli Stati Uniti, e fondatrice della Duke Initiative for Science & Society. Dal 2010 al 2017 ha fatto parte della Commissione presidenziale Usa per lo studio delle questioni bioetiche. Oggi è una delle voci più autorevoli sul tema della privacy cerebrale.

Professoressa Farahany, in passato sembrava che i pensieri fossero solo nostri. Si poteva certamente drogare una persona o cercare di plagiarla, ma nessuno poteva entrare nella mente di un altro. Oggi sembra possibile violare quest’ultima fortezza. Che cosa sta accadendo?

«I progressi delle neurotecnologie stanno consentendo un accesso che non ha precedenti ai nostri pensieri più intimi, rendendo labile il confine tra quello che è privato e quello che diventa pubblico. L’ultima fortezza della privacy è assediata da tecnologie in grado di decodificare i segnali neurali e dalla biometria cognitiva (qualcosa di simile alle “impronte digitali” del cervello) che permettono di fare inferenze sofisticate sui nostri sentimenti e sui nostri stati mentali, sollevando notevoli problemi etici e legali».

Quali sono le applicazioni più promettenti delle neurotecnologie al di fuori della medicina? Saremo in grado di migliorare le nostre capacità cognitive o di “rieducare” i criminali?

«Al di là della medicina, le neurotecnologie sono promettenti per il potenziamento cognitivo, il miglioramento dell’apprendimento e l’aumento della produttività. Tuttavia, l’idea di “rieducare” i criminali solleva dilemmi etici sul consenso e sull’autonomia delle persone coinvolte, nonché sui rischi di manipolazione e di imposizione cognitiva che mi rendono molto preoccupata».

Quali sono le neurotecnologie emergenti che possono minacciare maggiormente la nostra privacy cerebrale?

«L’integrazione di sensori cerebrali in ogni dispositivo multifunzionale come auricolari, orologi e cuffie rappresenta la minaccia maggiore, alcune grandi compagnie stanno già pensando di inserire strumenti miniaturizzati per l’elettroencefalografia nei loro dispositivi che saranno venduti liberamente al pubblico. Hanno il potenziale per accedere e decodificare i nostri pensieri, le nostre emozioni e le nostre intenzioni, ma le minacce diventano invisibili mentre noi siamo impegnati in altri usi di questi dispositivi».

Si avvicina il momento in cui potremo utilizzare dispositivi che ci renderanno la vita più facile, ma che potrebbero esporci alla divulgazione dei nostri dati cerebrali/mentali?

«Sì, a mano a mano che le neurotecnologie si integrano nelle nostre attività di tutti i giorni, la comodità che offrono comporterà alcuni compromessi in termini di privacy. Il rischio di accesso non autorizzato alle informazioni cerebrali aumenterà, richiedendo una solida protezione dei dati biometrici neurali e cognitivi».

Dove vede i maggiori rischi nell’abuso delle neurotecnologie: da parte di malintenzionati o da parte di Stati che vogliono controllare i propri cittadini?

«Entrambe sono potenziali minacce rilevanti. I malintenzionati potrebbero sfruttare le neurotecnologie per ottenere vantaggi per sé o provocare danni ad altri, mentre gli Stati potrebbero usarle per la sorveglianza e il controllo, con gravi violazioni delle libertà individuali e dei diritti umani».

Si potrebbe pensare che, visti i pericoli, sarebbe meglio rallentare la ricerca sulle neurotecnologie non per uso clinico. È fattibile? Qual è la sua opinione?

«Rallentare la ricerca non è fattibile né auspicabile, visto il mandato etico che vale per tutti gli studiosi di provare a trovare rimedio a malattie e sofferenze che hanno origine nel cervello e sono assai diffuse. Dovremmo invece concentrarci sulla definizione di linee guida etiche e di quadri normativi che garantiscano lo sviluppo e l’uso responsabile delle neurotecnologie».

Quali strumenti legali possiamo mettere in atto per proteggere la privacy e l’integrità mentale delle persone? Abbiamo bisogno di diritti neurali come nuovi diritti umani?

«Abbiamo bisogno di poterci basare su un chiaro ed esplicito diritto alla libertà cognitiva, ovvero il diritto di ogni individuo a mantenere il controllo sui propri processi mentali e sulle proprie esperienze cognitive. La libertà cognitiva deve garantire che le persone possano formare opinioni, prendere decisioni e sviluppare idee senza coercizione; deve proteggere i pensieri, le emozioni e le esperienze mentali dall’accesso non autorizzato e dalla sorveglianza non voluta; deve assicurare che le persone non siano soggette a interventi che alterano i loro stati mentali senza consenso informato. Ciò ci porterebbe ad aggiornare la nostra interpretazione del diritto umano all’autodeterminazione e alla privacy. Solo così si potranno pienamente salvaguardare intrusioni che provochino letture, manipolazioni e persino “punizioni” dei nostri pensieri da parte di soggetti terzi. Questi diritti sono sanciti dai codici internazionali che esplicitano i diritti umani e la loro estensione dovrebbe essere aggiornata in base al concetto di libertà cognitiva appena descritto, che deve assumere un ruolo centrale».

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