Il «gesuita della Dolce vita», il prete che sdoganò Fellini; ma anche il pupillo e confidente del cardinale di Genova, il severo Giuseppe Siri... Sono i tratti che hanno contraddistinto la complessa personalità del «gesuita del cinema» – secondo una felice definizione di Gian Luigi Rondi –, padre Angelo Arpa (1909-2003) di cui proprio domani 27 marzo ricorrono i dieci anni della morte. Un personaggio insolito e controcorrente, noto negli anni Cinquanta e Sessanta assieme al domenicano belga Felix Morlion per aver promosso in Italia la cultura del cineforum, prima nella «sua» Genova e poi in tutt’Italia attraverso la Fondazione Columbianum. Dalle mura di questa struttura, in piazza San Matteo, padre Arpa fece conoscere agli italiani le istanze sociali che provenivano dal cinema latino-americano ma anche i dibattiti e il fermento attorno al Vaticano II; proprio al Columbianum (grazie anche al placet di Siri) nel 1961 venne presentato un testo sul Concilio firmato dall’allora cardinale di Colonia Joseph Frings (ma preparato dal promettente teologo bavarese Joseph Ratzinger). L’anno successivo nello stesso edificio toccherà al cardinale Agostino Bea spiegare il senso delle assise ecumeniche. A dieci anni dalla scomparsa di questo sacerdote non convenzionale rimangono vive le grandi intuizioni sul neorealismo italiano e i suoi giudizi molto lusinghieri e non affrettati su registi del calibro di Vittorio De Sica, Roberto Rossellini, Luchino Visconti e Pier Paolo Pasolini (di cui padre Arpa ammirava «il realismo spirituale» di un film cult come Uccellacci e uccellini). Proprio al grande scrittore e regista friulano il gesuita garantirà la sua consulenza per il Vangelo secondo Matteo, mentre con Rossellini si adopererà per la realizzazione di Era notte a Roma del 1959.
Lo stesso produttore Angelo Rizzoli riconoscerà ad Arpa il «fiuto dell’imprenditore» per aver intuito prima di tutti che «La dolce vita non solo era un capolavoro ma avrebbe sbancato al botteghino». Gesuita sognatore e in un certo senso «irregolare», ma anche attento uomo di cultura, padre Arpa fu un profondo cultore del pensiero di Carl Gustav Jung, di Martin Heidegger e dell’amatissimo teologo Henri de Lubac, che rappresenterà la sua stella polare soprattutto per Paradoxe et mystère de l’Église; forte anche la sua venerazione per la Sindone di Torino, su cui accarezzerà l’idea di una sceneggiatura dedicata al volto di Gesù. Ma il capitolo centrale della vita di Arpa ha soprattutto un nome: Federico Fellini. Al gesuita originario di Castelfranco Veneto, che lui chiamava semplicemente «Angelo», l’artista di Rimini confidava i dubbi sulla fede, il senso del peccato e della grazia; a lui ricorreva per consigli sul tema del sacro – presente in tanti spezzoni di pellicole come Amarcord, La dolce vita e Otto e mezzo – o sui personaggi religiosi presenti nei suoi film: dai sacerdoti (come gli indimenticabili «pretini vestiti di rosso») ai cardinali (si veda la sfilata ecclesiastica di Roma). La stima di Arpa verso il cineasta romagnolo era antica e viene testimoniata da una dedica tracciata nel 1954 dal gesuita su una Bibbia: «A Federico Fellini questo "libro di Dio" perché, conoscendo e contemplando le cose che non passano, possa dare verità alle cose che passano». E l’ammirazione verso «l’amico Federico» non verrà mai meno da parte di Arpa, fino alla difesa quasi «in solitaria» (escluso il lungimirante giudizio di un altro gesuita, padre Nazareno Taddei, su Letture) di film come Le notti di Cabiria e ancora di più La dolce vita di fronte a una «sbigottita opinione pubblica cattolica». Da quell’anno, il 1960, il gesuita diventerà «l’Arpa di Fellini», il «padre de La dolce vita», il gesuita stregato da quel «Cagliostro di Fellini» – così secondo l’Osservatore Romano>. La pellicola venne infatti vietata dal Centro Cinematografico Cattolico e durissimo fu il giudizio de La Civiltà Cattolica, una vera condanna.
In soccorso di padre Arpa arriverà inaspettatamente il cardinale di Genova, Giuseppe Siri: «Questa Dolce vita bisognerebbe farla vedere ai miei seminaristi del quarto anno di teologia, perché si rendessero conto di quanto è brutto il mondo». Solo a distanza di tanti anni, nel 2003, il cardinale Carlo Maria Martini ha raccontato «le sue personali impressioni» su quel film che fece scalpore, dandone una «lettura positiva» e non di censura: «Ricordo che confidai a padre Angelo nella mia veste certo di critico incompetente che era necessaria una lettura maggiormente valutativa dell’opera. Egli accolse con gratitudine le mie riflessioni e mi disse che le avrebbe comunicate a Fellini stesso». Ma è proprio sul tema della fede che il regista, in tante chiacchierate a Roma e sul litorale di Ostia, confidò all’amico gesuita di credere nell’aldilà, nonché l’ammirazione per Papa Giovanni XXIII (su cui aveva ipotizzato di fare un film): «Vedi, Angelo, questa Chiesa la possiamo e la dobbiamo criticare ma credo che dobbiamo essere onesti. L’uomo ha bisogno di una mediazione tra lui e il Maestro. In quest’ottica la Chiesa costituisce una grande e fortunata presenza». Padre Arpa sarà accanto all’amico Federico nelle ultime ore di vita e assieme al cardinale Achille Silvestrini il 31 ottobre 1993 ne celebrerà i funerali nella basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma. Ma anche in seguito continuerà a difenderlo e a ribadire – come già aveva fatto padre Taddei – «quel rigurgito di grazia e di redenzione» presente nel finale de La dolce vita.