mercoledì 2 agosto 2017
L'azzurra alla viglia dei Mondiali di Londra: «i risultati ripagano ogni fatica. La Coppa Europa e il quarto posto di Rio mi fanno ben sperare dopo i tanti infortuni. Il doping? Un tradimento»
Antonella Palmisano, 24 anni di Mottola (Taranto), punta di diamante dell'italia ai Mondiali di atletica di Londra (Colombo/Fidal)

Antonella Palmisano, 24 anni di Mottola (Taranto), punta di diamante dell'italia ai Mondiali di atletica di Londra (Colombo/Fidal)

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Passione e grinta sono quelle di una ragazza del Sud. Ma la forza di Antonella Palmisano è racchiusa anche nei capelli: «Sin dalla mia prima gara, indosso un fermaglio che riproduce ogni volta un fiore diverso. Non a caso ha la forma dei girasoli perché esprimono al meglio la gioia di vivere che porto dentro». Originaria di Mottola ( Taranto), la venticinquenne marciatrice pugliese ci ha messo poco per arrivare in cima al mondo. A soli 19 anni aveva già fatto sua la Coppa del Mondo juniores a Chihuahua in Messico. Un palmarés giovanile brillante prima di spiccare il volo sotto la guida di Patrizio Parcesepe, tecnico delle Fiamme Gialle. Più forte di mille infortuni è arrivata quinta ai Mondiali di Pechino 2015 e quarta ai Giochi di Rio 2016. Quest’anno è ripartita di slancio portandosi a casa, nel maggio scorso, la Coppa Europa. Un successo che la proietta di gran carriera ai Mondiali di Londra che si aprono venerdì.

Che cosa si aspetta da questa rassegna iridata?

«Il trofeo europeo mi fa ben sperare ma la gara mondiale sarà completamente diversa, anche perché affronterò avversarie di grande spessore. Per carattere non mi pongo mai obiettivi se non quello di dare il massimo e cercare di essere protagonista rimanendo con le prime. Ci stiamo allenando duramente mattina e sera per essere al meglio».

Per una donna non è una disciplina troppo faticosa?

«Dal di fuori sembra una follia, me ne rendo conto. Soprattutto in provincia sembra uno sport inconcepibile per una ragazza. Ma chi sceglie questa disciplina sa la fatica a cui vai incontro, altrimenti il giorno dopo aver marciato per venti chilometri non ti alzeresti dal letto. I risultati però ti ripagano dallo sforzo estremo. Ci vuole tanta passione, anche perché bisogna essere concentrati mentalmente, passi parecchie ore da sola a pensare».

Eppure la sua “marcia” è cominciata quasi per caso...

«Sì, da piccola avevo cominciato a giocare a pallavolo. A tredici anni ho scoperto però la corsa. Ma c’è stato un periodo in cui non c’erano gare e il mio allenatore mi ha detto di provare con la marcia. Sono arrivati subito i risultati e mi sono lanciata. Un fascino incredibile: ho praticato gli sport di squadra, ma penso che la soddisfazione di una prestazione individuale sia il massimo. La marcia ti spinge a prenderti le responsabilità in prima persona anche quando le cose non vanno bene».

Ha passato dei brutti momenti per i tanti infortuni.

«Il più duro da superare è stato quello al tibiale destro dopo il Mondiale di Pechino nel 2015. Venti giorni prima della gara avevo avuto già dei sintomi in allenamento, poi ci ho marciato per venti chilometri su e mi è stato fatale. Sono arrivata quinta ma sul traguardo il fisioterapista è stato costretto a prendermi in braccio perché non camminavo più... Son rimasta ferma per sei mesi. Ma fa parte del nostro mestiere».

Quanto è stata dura emergere da una piccola realtà del Sud?

«Per me è stato uno stimolo maggiore per trovare migliori opportunità. Certo da quando mi alleno a Ostia spesso mi manca casa mia. Anche i nonni visto che sono cresciuta con loro. Sono meridionale, per me la famiglia è sempre la famiglia. Mi sono vicini, mia madre ha già preparato il fermaglio per i Mondiali. Una tradizione cominciata da mia zia, ora è diventato anche un portafortuna, come a Rio…».

Ai Giochi dell’anno scorso un grande risultato. Eppure il quarto posto a pochi secondi dal podio e dalla vincitrice non le lascia un po’ di amaro in bocca?

«Io sono molto contenta. È stata una grande emozione. Alla mia prima esperienza olimpica un quarto posto dopo tutti i problemi fisici che ho avuto è il massimo. Alla partenza avevo paura di risentire il dolore al tibiale ma poi è andata bene. Sono consapevole di aver dato il 110 per cento e alla fine è questo ciò che conta».

Non ha fatto in tempo a scendere dall’aereo che è stata colta di sorpresa…

«La proposta di matrimonio del mio fidanzato. Mi ha stupita, ma prima o poi doveva succedere, il matrimonio è un sogno che cullo da tempo. Dopo i Mondiali inizieremo i preparativi».

Negli ultimi anni il suo sport è stato al centro di tanti casi di doping.

«Purtroppo sì e non riesco a comprendere: da piccola mi hanno educato a distinguere il giusto dallo sbagliato e se firmi una carta etica lo fai perché ci credi, non puoi venir meno ai principi dello sport. È un tradimento ».

Lei è considerata l’erede di una grande campionessa azzurra, la sfortuna Annarita Sidoti (morta a soli 45 anni nel 2015 per un male incurabile).

«Non ho avuto la fortuna di conoscerla, ma ho visto il film e mi son commossa. Mi sono anche un po’ rivista per la testardaggine e la determinazione nel riprendermi dagli infortuni. Anche se devo ringraziare soprattutto il mio staff. Ho appreso tanto dai miei allenatori. Da quello passato che era molto credente ho riscoperto la dimensione della fede che mi dà grande forza. E al mio tecnico attuale devo la risalita e il brivido delle Olimpiadi. È stato un punto di riferimento nei momenti più bui. Anche quando non vedi via d’uscita, ho imparato a crederci e a rialzarmi sempre».

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