Sono considerate un indice di maleducazione, un vizio spregevole da correggere: eppure, chi più chi meno, le parolacce le dicono tutti. Ogni cultura ha le proprie e tutti i sistemi linguistici contemplano un ricco corredo di termini variamente sconvenienti e volgari. Cioè (come recita il vocabolario Zingarelli, su cui compaiono a centinaia) «assolutamente prive di finezza, distinzione, signorilità e garbo». Verrebbe da pensare che il turpiloquio appanni la comunicazione togliendole valore ed efficacia. Sbagliato: come spiega Natale Fioretto nel suo
Anche Francesco le diceva (Graphe.it, pp. 36, euro 5), «le parole turpi non inficiano la comunicazione, semmai la arricchiscono di connotazioni di varia pregnanza provocando risposte di tipo neurologico e psicosociale». Una reazione nel bene o nel male, una scossa, che ha spinto più di un personaggio pubblico, politici soprattutto, a fare delle parolacce la propria cifra. Matteo Salvini, per esempio, il leader della Lega che della volgarità è un maestro. O Beppe Grillo che in proposito non ha niente da imparare da nessuno: da quando faceva il comico in tivù, il personaggio si è evoluto, ma sono rimasti identici il suo «tratto urticante», come lo definisce Fioretto, e la sua aggressività verbale. Possiamo sostenere, si chiede Fioretto, che le parolacce di cui fa largo uso Grillo inficino la fluidità della comunicazione? «Tutt’altro, è la risposta, e nel caso specifico l’insostenibilità del linguaggio e la corrosività di certe metafore se da un lato infastidiscono, dall’altro rafforzano nell’interlocutore un’idea di prossimità, quando non di aperta simpatia, nei confronti di chi fa lo sgambetto alle regole della politica». Il linguaggio di Grillo, quindi, è sgradevole ma efficace. Come quello del critico d’arte Vittorio Sgarbi, che impugna la trivialità come una clava, o del giornalista Giuseppe Cruciani corrosivo conduttore de “La zanzara”, programma di punta di Radio24, che fa dell’antipatia un punto di forza. A furia di sentirle pronunciare, certe parolacce non sembrano più parolacce: «Una simile variazione di significato, sostiene Fioretto, è il risultato di un fenomeno di desemantizzazione. Tale funzione testimonia un vero e proprio slittamento semantico che è stato in grado di lenire l’intensità del significato originario o di modificarlo radicalmente ». È il caso, ma gli esempi abbondano, della parola “casino”, ormai diventato sinonimo di “confusione” ma in realtà termine volgarissimo che indicava le case di appuntamenti. Vale a dire che la soglia di tolleranza verso certe parole può spostarsi, fino ad arrivare al completo sdoganamento e all’inclusione, al salto di qualità fin dentro il linguaggio “perbene”. Resta una curiosità: che parolacce può aver mai pronunciato il Poverello di Assisi? Il libro ricorda che, nel capitolo ventinovesimo dei “Fioretti”, san Francesco consigliò a frate Rufino di minacciare il diavolo tentatore con un’espressione scatologica: «Apri la bocca, mo’ vi ti caco». Un termine che resta sorprendente sulla bocca di un simile personaggio, ma che impallidisce se confrontato con quel che, ahinoi, ci siamo abituati a digerire.