mercoledì 31 luglio 2019
Cosa significa pensare un altare? Quali insidie nasconde il problema dello stile? Qual è l'immagine più vera e profonda dell'altare? Seconda parte della riflessione dell'artista Raul Gabrie
Raul Gabriel, progetto per presbiterio (poli liturgici e geometria del pavimento), rendering, 2019

Raul Gabriel, progetto per presbiterio (poli liturgici e geometria del pavimento), rendering, 2019

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III - L'altare non è (solo) una questione di stile

Gli elementi liturgici parlano per relazione diretta - Contro la tentazione della didascalia - L'altare supera tutte le categorie per identificare una ulteriore categoria: quella della sostanza della rivelazione - Autonomia e contesto

L’altare non ha cattedre stilistiche. Ogni tempo ha la sua cultura che produce pensiero e procedimenti estetici e concettuali particolari. È naturale che questo si possa irradiare nella realizzazione delle opere e quindi anche in un elemento come l’altare. Eppure questo non basta. L’estetica dei simboli sacri richiede un suo movimento di pensiero intriso del tempo in cui si trova ma al tempo stesso libero da legami di maniera, anche sofisticati.

Nella pratica artistica credo che i perimetri del mio campo di ricerca formale siano riconoscibili e personali, anche estremi per quanto riguarda ad esempio la contaminazione dei materiali. Ma quando affronto il tema del sacro è come se avessi un ulteriore scomparto del pensiero. Non applico il mio stile per essere riconoscibile. O meglio: mi stacco dalle altre ricerche per avventurarmi in questa specifica, sempre personale, strano bilanciamento tra servizio e libertà, necessità di corporeità e purificazione dal racconto didascalico. È essenziale comprendere che didascalia può essere anche quella del mio stile.
Il campo del sacro è specifico, posto su un asse temporale che attraversa ogni istanza, senza esserne influenzato nel suo cuore fondamentale. È divertente e interessante vedere questo o quell’artista che porta la sua personale idea di altare, applicando i suoi modi. Forse in qualche misura è anche inevitabile. Ovviamente mi riferisco ad esempi che abbiano il minimo sindacale di qualità riconoscibile e una autorevolezza sul piano della ricerca formale.
Ma credo sia opportuno chiedersi, in una visione contemporanea che riesca a procedere approfondendo il legame con l’essenza formale, se un simbolo sacro debba rispondere con evidenza a questo o quel movimento artistico. Il tema del sacro applicato ai simboli è differente dal caso delle opere iconografiche. Lì l’autore applica la ricerca formale che pratica in altri ambiti. Nel caso dei simboli credo che si debba scoprire, se lo si ha, il proprio stile calato in una dimensione differente, con priorità formali diverse e totalmente autonome.

L’altare ha una identità nel suo incontrare la meditazione di un artista, ma è una identità da scoprire, ex novo, non occasione di citazione dei propri stilemi. Quando il tema stilistico viene proposto con eccessiva evidenza, prioritario rispetto alle esigenze di autonomia e contestualità, di convergenza e divergenza con gli altri elementi e dell’architettura del tempio, finisce per essere nuovamente didascalia, anche se di un livello superiore rispetto alle frasi da bugiardino religioso. Una decorazione raffinata che tende a trasformare la chiesa in un museo piuttosto che in un luogo autonomo con le proprie regole. Non intendo dare una risposta ma porre il problema su cui vedo una certa confusione anche tra gli addetti ai lavori. Certamente l’altare deve essere in grado di parlare di sé anche in assenza di liturgia o spiegazione.

li elementi liturgici di una chiesa, come ogni opera d’arte o architettura, parlano per relazione diretta, nel bene e nel male. Da questo punto di vista voglio citare due esempi. Quello di Soissons dell’architetto Duthilleul e quello di St. Benno a Monaco. La sola visione può dar conto di come nella apparente similitudine cromatica i risultati sono completamente differenti.
Un altro fronte è quello della tematica dell’altare relativa a materiali e ad altri congegni formali. L’altare di idea naturalistica è uno dei fronti su cui si vedono varie soluzioni. Ma anche in questo caso vi è un fraintendimento. La “idea di ambiente” frequentata in questi casi è la natura ecologica, un po’ new age, e non può essere sufficiente. Idea ristretta di ambiente che non soddisfa il carattere assoluto e atemporale di un altare. A fronte del fatto-altare, ambiente e natura sono ogni cosa, non solo il verde delle aree protette, ma anche il grigio più grigio delle città, il centro più evoluto, come la periferia disastrata. Non si tratta di dettagli ma di un vero e proprio salto di dimensione.
Un altare non è la raccolta episodica di tematiche sociali, pur legittime. La grande sfida dell’altare è superare le categorie per identificare una misteriosa ulteriore categoria che è quella della sostanza della rivelazione. E qui sta uno spunto metodologico, almeno di concetto. Questa sostanza è ovviamente imprendibile, ma intuibile in alcune sue parti. Un altare, la sua realizzazione, dovrebbero essere lo sforzo di rendere incontrabile il mistero attraverso le parti che riusciamo a catturare nella sua essenza formale. Queste parti devono essere concrete, se crediamo che il mistero per la rivelazione cristiana si sia fatto carne attuale per ognuno. Alcuni passi, mi rendo conto, sembrano negare la idea di contestualità, ovvero un radicamento nello specifico del simbolo generale. Non è così. Il discrimine è su un piano diverso.
La contestualità di un altare non può essere aneddotica. Radicata non significa episodica. Così l’idea di natura, di comunità, la continuità con la chiesa di cui dovrebbe essere matrice, non sono l’applicazione di etichette di categoria e cifre stilistiche. Se faccio un altare usando un tronco d’albero, quanto mantengo il valore simbolico e quanto invece lo disperdo in una interpretazione troppo narrativa di natura e un tipo di relazione con essa? A questo proposito porto ad esempio l’altare in legno in Germania i cui risultati parlano da soli. L’albero è certamente parte del cosmo, ma sacrifica la percezione dell’altare che per sé significa la natura in una maniera più sacrale, totalizzante e interna rispetto a una sua particolare manifestazione tangibile troppo descrittiva e anche decorativa.

Ciò che succede dentro e sopra un altare va oltre le categorie conosciute della fisica, della biologia, dell’antropologia, pur incarnandole tutte ad un unico tempo. Se è vero che l’altare non deve somigliare a nulla, lo è nel senso che non ha necessità di alcuna didascalia. La didascalia può essere anche formale, non necessariamente scritta, e depotenzia fatalmente la potenza simbolica dell’elemento. In questo l’astrazione è certamente uno strumento evoluto, poiché, se non è esercizio stilistico, può comunicare la corporeità evitando di ridurla a rappresentazione oleografica.
L’altare non deve somigliare a nulla ma deve dichiarare il suo essere matrice della chiesa in cui si trova. L’altare deve essere autonomo eppure contestuale. Non deve raccontare storie. Uno degli errori più evidenti è vedere nell’altare e nei simboli liturgici una specie di foglietto illustrativo delle narrazioni, dei racconti, delle morali. L’altare non è altro che se stesso. Non è una storia ma essenza stessa della storia. L’altare non deve funzionare di rimando. L’altare non rimanda a nulla. Nella peculiarità del rito cristiano l’altare semplicemente è. La sua forza emanativa genera gli eventi formali della chiesa e li racchiude, ma in sé è forma compiuta. Fulcro del mistero e dell’architettura della chiesa non richiede il superfluo per essere. Richiede una compiutezza formale unitaria e articolata che dia conto della sua forza centralità e contestualità.

IV - Altare, metafora del completamento

L'altare come meta e motore di un percorso di ricerca spirituale - Ognuno ha un proprio "altare" - Le possibilità offerte dai linguaggi e dalle pratiche del contemporaneo

Impossibile tirare conclusioni sul tema altare. Questo a causa della sua vitalità intrinseca e irriducibilità a ogni regola cristallizzata. Credo si possa fare ancora molto per calare nella realtà la sostanza rinnovata di un altare per ciò che è. Ovvero cominciare a pensare concretamente le chiese come sua espansione e sistema planetario. Tuttavia qualche punto ulteriore è possibile accennarlo.

Un primo problema è che per trasmettere bisogna essere. Credo che se si facesse un sondaggio su come viene considerato un argomento come l’altare nella contemporaneità, la quasi totalità dei riscontri ne restituirebbe la percezione in aggettivi come passatista, superato, anacronistico. E questo anche nell’ambito di chi ha una qualche fede di ambito cristiano. Indipendentemente dalla fede, l’altare significa il fulcro di ogni credo, laico o religioso, agnostico o magico. Per ognuno vi è un “altare”, punto di incontro concreto con la propria esperienza, intellettuale, spirituale, tecnologica o finanziaria che sia. Il vero problema è la ritrosia ad approfondire, per scivolare in superficie su ogni esperienza, senza compromettersi e senza una ambizione genuina sul proprio cammino umano. I media e le tecnologie disponibili agevolano sicuramente questa attitudine ma non approfondire è un portato contemporaneo in sostanza indipendente dai mezzi.

Riportare all’attenzione delle ricerche simboliche, estetiche, artistiche un argomento come l’altare è un passo importante e il convegno di Bose di quest’anno ne è un esempio autorevole. Ma il lavoro va fatto dentro l’uomo. Se non si ricrea il contatto con la propria identità e il suo percorso, che comunque avviene nel bene o nel male, salvo esserne scissi, non si può pretendere una rinascita della ricerca, un collegamento con il mistero dell’esistenza e le sue manifestazioni, quindi con i suoi simboli.

Si deve attivare l’inquietudine che deriva da una presa di coscienza della dinamicità dell’essere e dei suoi scopi, quelli intimi, non imposti da nessuno. E di conseguenza la necessità di gesti che tentano costantemente di ricongiungere ciò che probabilmente non vedremo mai ricongiunto, almeno nell’universo per come lo conosciamo. Il gesto estetico, il gesto politico, il gesto intellettuale, il gesto del lavoro, il gesto che porta alla intima necessità e gioia di lavorare a opere o azioni simboliche, sono l'unica vera medicina che può lenire l'inevitabile incompletezza che ci portiamo dentro, croce ma anche delizia, grazie alla quale ci muoviamo, pensiamo, soffriamo, progettiamo, amiamo, in poche parole grazie alla quale siamo vivi.

Fare un altare è la metafora perfetta del tentare il completamento. L’altare è la cosa più vicina al completamento che abbiamo a disposizione. Ognuno con il suo altare, nel proprio credo, nella propria fede. Ecco perché nell’ambito di una chiesa questa è la sfida più avvincente e totalizzante, pur essendo in apparenza la più piccola.

In astrofisica, ambito che ho usato in maniera molto libera per illustrare alcuni concetti, esiste una branca teoretica nella quale la esistenza di alcune entità, come la materia oscura e i buchi neri, non viene data dalla visione diretta, o comunque da una oggettualità inconfutabile sul piano del visibile. Viene ipotizzata invece sulla base degli effetti che queste entità producono su ciò che possiamo vedere. Un altare in una chiesa, così come la nostra completezza cercata e mai raggiunta, si deve percepire attraverso gli effetti su di noi e su ciò che ci circonda. Potrei aggiungere l’ipotesi di una chiesa con un percorso che non dà visibilità diretta e immediata dell’altare, essendo però caratterizzata da una tale convergenza di tutti i campi di forza dell'architettura e delle forme che ne fanno intuire la presenza. Un percorso in cui sentiamo la presenza dell’altare, sentiamo la indicazione a un cammino verso la meta. Un percorso visivo ed emozionale che ci permette di iniziare il viaggio all’interno della chiesa fino a giungere al suo fulcro centrale.

Da alcuni anni, prima nelle Arti visive e poi nell’Architettura, la Santa Sede partecipa alla Biennale di Venezia. È una grande occasione per mostrare le peculiarità dell’arte nel sacro, una ricerca estetica sofisticata ma con regole proprie. E con peculiarità, ovviamente, non intendo alcuna sorta di integralismo e dimensioni di questo genere, rovina di ogni genuino istinto verso la ricerca spirituale. Intendo invece traduzione e produzione formali capaci di portare in un universo linguistico altro, rinnovato e sconosciuto. Intendo la rigenerazione di un linguaggio proprio, autonomo, che dialoga, mostrando la ricchezza, tutta specifica, del patrimonio formale ed estetico che una fede può portare nel mondo, in relazione dinamica con tutte le altre individualità. Non il luogo dove esercitare il proprio stile applicato ad altri contesti. Il luogo in cui generare un fronte linguistico preciso, rigoroso, ma differente, visionario ed entusiasmante.

Per questo la Biennale è un momento che richiede un pensiero radicale. E per questo se dovessi proporre un’idea, presenterei il “fare” una chiesa. Non un semplice progetto finito: ma lo stesso atto del pensarla, individuarne e realizzarne i luoghi, ponendo l’accento sui punti in cui intuizione artistica, visione e forma si incontrano. Fissando questa convergenza mirabile in azioni, singole e di gruppo, installazioni e opere che permettano la contemplazione statica di un processo dinamico che si ripete ad libitum.

Concepire e realizzare una chiesa è un universo che potenzialmente racchiude tutte le capacità espressive e le azioni che caratterizzano l’arte, naturalmente anche quella contemporanea. Nel metodo e nella attuazione. Con la ricchezza della contemporaneità che permette una libertà di scelta senza eguali nella storia. Materiali, disposizioni, relazioni tra le forme potenzialmente infinite, affrancate da pregiudiziali di sorta.

Userò il presente dato che l’idea è più viva che mai nel mio pensiero. Il concept è percorrere le tappe del perché una chiesa è quello che è. Con un pensiero contemporaneo e antico. Fare di ogni momento lo spunto per una opera-installazione-performance. Contemporaneo dal punto di vista formale e antico dal punto di vista dell’amore per il mistero. Primo momento essenziale: la scelta del luogo e la strutturazione dell’altare. Il centro che origina tutto il sistema che gli ruoterà intorno. Già questa fase è così ricca di spunti da contenere in sé la totalità dei contenuti. La formazione del luogo in cui, per alcuni, si incontra e compie costantemente il mistero, diventa polo che espande e concentra in un manufatto tutta la densità di una visione mistica. La capacità del significato di ritopologizzare un luogo attraverso il gesto e la materia. Ma anche attraverso la relazione e i suoni. Mostrare la convergenza magmatica di una materia che comprende suoni immagini, materie e aggregazione di individualità che si raccolgono intorno, identificando un’altra dimensione dell’altare: quella dell’amplificazione del gesto delle relazioni.

Le idee con cui questo può essere realizzato sono molteplici, non basterebbe l’intero giornale per entrare nei dettagli di ciò che immagino. Certamente le Biennali sono occasione per mostrare la prolificità e specificità immensa che abbiamo a disposizione quando entriamo sinceramente e con entusiasmo nel campo del rapporto tra arte e sacro. L’altare e la sua genesi come opera omnia. Estendendo la operazione ad altre fasi dei simboli di una chiesa, la Parola, l’Acqua, magari distribuite su un piano urbano delocato da ricostruire attraverso un percorso intuibile attraverso le forme e le forze.

Oggi, vedendo il padiglione controverso e giustamente premiato della Lituania, sono a maggior ragione convinto del mio pensiero e progetto. Se solo noi riuscissimo ad avere l’entusiasmo creativo che altri hanno nel ricostruire una spiaggia sintonizzata in modo mirabile sulle ritualità vuote quanto le aspirazioni di tanta umanità, contesto a fronte del quale un MacDonald's sembra essere Notre Dame, potremmo perlomeno intuire quale tesoro abbiamo a disposizione quando incontriamo la possibilità di pensare un altare.

Leggi qui la prima parte del testo qui


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