L’ex campione brasiliano naturalizzato italiano, José Altafini, 84 anni, in una foto storica con la maglia del Milan
La prima immagine viene dal biancoenero dilavato e sgranato della tv nell’acquivento di uno Juventus-Fiorentina, dicembre del ’72, sto andando a memoria. Si vede Causio che indugia sulla palla, che si compiace e perde tempo come a volte gli capita, ma poi va di scatto a sinistra e crossa teso verso il centro dell’area, dove è gremito di maglie viola: è lì che si protende in avanti, staccando pressoché da fermo, la testa stempiata dell’anziano calciatore che è appena entrato in campo. A riassaporarlo su youtube, il primo gol juventino di José Altafini è un tracciante che fende l’acquivento e si insacca irreparabile con nettezza cartesiana. José, campione persino ineffabile, non mi è mai capitato di chiamarlo o addirittura di pensarlo altrimenti se non con il nome di battesimo. José era già tale per me nelle immagini primordiali che mi sfilano adesso davanti e sono tutte anteriori a quel gol iniziatico. Vado sempre a memoria: la copertina dello “ Sport Illustrato” di lui ventenne con la maglia verdeoro del Brasile campione ai Mondiali di Svezia 1958, il ciuffo rossiccio e le efelidi, un profilo somigliante al grande Valentino tant’è che a San Paolo lo chiamano Mazola; poi una foto a torso nudo, raggiante e sfinito sul prato di Wembley, appena dopo la doppietta al Benfica nella finale di Coppa dei Campioni, 1963, la prima volta del Milan (in casa avevamo da pochissimo la televisione, ricordo una sintesi filmata, non mi pare, anche se è incredibile a dirsi, che la partita fosse in diretta); quindi un’istantanea con la maglia azzurra del Napoli, vicino all’immenso Omar Sivori in una endiadi di classe sovrana, come in un combinato di talento e di spreco senza ritorno: qualcuno dice infatti che al Napoli lui come anche Sivori si riposasse, invece è vero che ha continuato a prodigare, sia pure a lampi ed improvvisazioni ditirambiche, i doni di una classe superiore.
La seconda sequenza è di pochi mesi dopo, in Jugoslavia, nella città-fortezza di Novi Sad da cui trasse ispirazione Ivo Adric per il grande romanzo Il ponte sulla Drina: un giorno avanti la finale con l’Ajax dei Lancieri, di Cruyff e Neeskens che l’avrebbe infatti vinta. Sono reduce dagli esami di quinta ginnasio e sono lì in gita premio con mio padre, il quale mi ha portato benché nulla più gli interessasse del calcio, da decenni, dopo la tragedia del Grande Torino di cui era stato un tifoso. C’è tanto di foto scattata nella astanteria dell’albergo della Juve, dove quello a sinistra è il portiere di riserva (anconetano come me, Massimo Piloni, uno dei non pochi vice che ebbe Dino Zoff ), a destra lo studente con tanto di giacca e cravatta, perché allora nei licei di provincia usava così, e nel mezzo, con i jeans e una maglietta color lampone, Josè che sembra capitato lì per caso: la foto è incorniciata nel mio studio, sottovetro c’è anche il biglietto della partita che, come leggo, si giocò a Belgrado il 30 maggio del ‘73 nello stadio della Stella Rossa. Rammento un catino moderno per quei tempi, detto con qualche enfasi Maracanà, imbucato nel parco centrale di una città verdissima, bella, da non molto ricostruita su una planimetria che venticinque anni dopo i raid umanitari della Nato avrebbero di nuovo sconvolta. La finale fu una delusione in ogni senso, troppo acerba la Juve, troppo forte, e fino all’insolenza, l’Ajax: Zoff vide tardi un pallonetto di Rep, Furino cercò più volte di abbattere Cruyff (peraltro già ceduto al Barcellona e in campo pro bono pacis), Bettega tentò un paio di giocate velleitarie, José più che altro rimase appostato e di lui ho presente una rincorsa su lancio di Capello ma non molto altro: all’indomani la foto che accompagna l’articolo di Gianni Brera sul Giorno ritrae un José a testa bassa, sulle spalle la maglia di Piet Keizer il suo omologo anziano presso i Lancieri, formidabile ala sinistra, un ragazzo troppo intelligente e autonomo per non litigare, e di brutto, con sua maestà Johan Cruyff. Lì José guarda a terra ma la sua silhouette è composta, ha misura e dignità tipiche di un uomo che pure ama dare di sé un’immagine sempre spensierata, scherzosa così come la racconta una nutrita aneddotica di spogliatoio.
La terza e ultima immagine viceversa è dal vivo, presa nella Rocca Costanza di Pesaro, esattamente il 5 luglio di dieci anni fa. Sul palco di “Popsophia” a discutere di “Filosofia del campione” ci sono Giancristiano Desiderio (biografo di Benedetto Croce), Elio Matassi (insigne studioso di filosofia tedesca, mancato purtroppo da anni), il sottoscritto e ovviamente, cordiale come sempre, José in jeans e Timberland, ben più giovane degli allora suoi settantacinque anni. Nonostante sia aduso a parlare in pubblico, quella sera mi sento emozionato come l’adolescente di Belgrado (mi è già capitato, de visu, solo con Omar Sivori, con José Saramago e con Durs Grunbein, il poeta tedesco, in una cena indimenticabile a Portonovo prima di una sua lettura). Con José scambiammo poche parole, piuttosto risapute e per così dire inceppate, almeno da parte mia. Volevo e non volevo parlare con lui come per una improvvisa insorgenza del pensiero magico, per una forma di superstizione che mi domandava se davvero si può avere la confidenza di un mito, incontrarlo, intervistarlo. Ripensandoci ora, mi affiorano alla mente i versi di un poeta che amo, René Char, quando dice in un suo verso sans guérir de ma jeunesse superstitieuse (la poesia si intitola L’age cassant): «Sono nato come la roccia/ con le mie ferite/ senza guarire dalla mia giovinezza superstiziosa/ in fondo a una fermezza limpida/ entravo nell’età fragile»… Ecco, degli antefatti assoluti che colmano qualsiasi adolescenza posso dire, per parte mia, che José Altafini è stato una breve frazione ma tuttavia non meno vivida e visibile tra quelle che, nel tempo, mi hanno reso a me stesso e alla mia fragilità.