Padre Adrien Candiard - Juzzolino
Pubblichiamo qui la parte iniziale del nuovo libro di Adrien Candiard, Tolleranza? Meglio il dialogo. Il caso-Andalusia e il confronto tra le fedi (Libreria Editrice Vaticana, pagine 126, euro 13,00, prefazione di Giancarlo Bosetti, da domani in libreria). In questo testo, che unisce in maniera convincente preparazione accademica e capacità di divulgazione, l’autore, studioso di islam all’Institut dominicain d’études orientales del Cairo, esamina le vicende dell’Andalusia del XII come paradigma di un autentico dialogo tra le persone di diverse religioni. Candiard partecipa domani a Milano (ore 21, Centro culturale, largo Corsia dei Servi 4) all’incontro su “Globalizzazione e conflitto. Come la convivenza costruisce la pace?” con Stefano Alberto, Ritanna Armeni e Ubaldo Casotto. Martedì alla Facoltà teologica dell’Italia centrale di Bologna, presente il cardinale Matteo M. Zuppi, dialoga con Massimo Gramellini su “Guardare la notte così com’è: il coraggio della speranza” (ore 17, piazzale Bacchelli 4). Entrambi gli eventi , a ingresso libero fino esaurimento posti, saranno trasmessi anche in diretta streaming (info www.centroculturaledimilano.it e www.fter.it).
«E l’islam, allora? Cosa dobbiamo pensarne? ». L’ingenuità di questa domanda che mi viene spesso rivolta mi farebbe quasi sorridere. Come se la mia vita al Cairo, i miei laboriosi sforzi di arabista e le mie temerarie escursioni sui ripidi sentieri dell’islamologia bastassero a permettermi di rispondere… […] È vero che l’islam insegna il disprezzo della donna, l’amore alla violenza, l’odio per l’Occidente? Che è per sua natura incompatibile con i diritti umani e il funzionamento democratico? È vero che l’Europa è sotto minaccia di vedersi trasformata in pochi anni, sotto la pressione di una demografia subdola, in una torva repubblica islamica? […] Io non so rispondere, non più di chiunque altro, a questa domanda quando mi viene fatta. Tuttavia la cito perché è proprio di questo che si parla quando si evoca oggi al-Andalus, la Spagna medievale musulmana, mitico luogo di una tolleranza religiosa davvero armoniosa, di un autentico dialogo delle culture. Sotto lo sguardo magnanimo dei colti principi arabi, i musulmani, gli ebrei e i cristiani abitavano in pace le medesime, prospere città; i più intellettuali tra loro non esitavano a filosofare in compagnia gli uni degli altri, ben più uniti dalla ricerca comune della verità, nutrita di sapienza antica, che non divisi a motivo delle loro trascurabili distinzioni religiose. Il tutto, nell’atmosfera raffinata di un giardino, all’ombra del palazzo dell’Alhambra, avvolti dal profumo inebriante del gelsomino; dove il suono di una chitarra pizzicata in lontananza viene appena disturbato dal mormorio di una fontana. La soave luce che si sprigiona da un simile quadro viene ulteriormente rafforzata dal violento contrasto con immagini di tutt’altro genere che popolano il nostro immaginario: ben presto, su quella stessa terra si agiterà la sferza dell’Inquisizione spagnola, sinonimo d’intolleranza e di fanatismo. In tutta evidenza, quell’Andalusia non è certo la comunità autonoma dell’odierno Sud della Spagna e nemmeno la provincia del passato. Non è una pagina di storia: è un mito. Ed è un mito di potente forza evocativa, tanto in Oriente come in Occidente. Ne è attraversata la letteratura francese, dal romanticismo di Chateaubriand al sogno di riconciliazione mediterranea di autori segnati dalla guerra d’Algeria. Nutre la poesia, irrorata di nostalgia, del palestinese Mahmoud Darwish. Lo si ritrova nel cinema del regista egiziano Youssef Chahine, che nel suo Il destino mostra un Averroè incredibilmente simpatico che lotta contro le forze del fanatismo religioso per diffondere nel mondo il suo messaggio di tolleranza e di saggezza. Nessuno di loro, ovviamente, parla di storia medievale: Albert Camus pensa all’Algeria, Darwish alla Palestina e Chahine mette in scena la lacerazione presente nel mondo arabo contemporaneo. Il mito ci parla dell’oggi, non di ieri. Sono pochissimi quelli che parlano dell’Andalusia in quanto tale. Gli storici? Certamente, ma nemmeno tutti. María Rosa Menocal, professoressa a Yale, pubblicava nel 2002 Principi, poeti e visir. Un esempio di convivenza pacifica tra musulmani, ebrei e cristiani: il sottotitolo è più una dichiarazione d’intenti che una rigorosa descrizione scientifica. Una scelta cui non era forse del tutto estranea la vicinanza temporale agli attentati dell’11 settembre. Chiaramente, il mito non è la semplice evocazione poetica di un paradiso perduto che non avrebbe altro scopo se non la bellezza o la nostalgia. Un mito può essere essenzialmente letterario, com’è il caso dei Racconti dell’Alhambra di Washington Irving, dove esso serve da scenario evocatore e pittoresco adatto a far sognare il lettore, ma più spesso l’Andalusia è un mito politico. In tutti gli esempi appena citati, al-Andalus giunge a puntino per un discorso politico preciso, legato a una particolare situazione di intolleranza o di tensione tra culture o religioni - e, specificamente, tra l’islam da una parte e l’Occidente (o l’ebraismo e il cristianesimo) dall’altra. Davanti a minacce di scontro o alle violenze, l’Andalusia viene ad affermare che è possibile una coesistenza pacifica tra i credenti di differenti religioni, tra gli esponenti di culture differenti; che, anzi, essa apre la via a una civiltà splendida; che la storia della Spagna medievale può servirci da modello per l’oggi. […] Il mito parla poco del passato. Parla invece dei disordini che regolarmente scoppiano nelle banlieue delle grandi città d’Europa; parla del terrorismo, parla della guerra in Iraq, in Afghanistan, in Mali; risponde alle predizioni di “scontro di civiltà” e offre una soluzione alternativa. Averroè, che sono ben pochi ad avere letto, è soprattutto un utile contrappeso a Osama bin Laden, un antidoto a tutti i barbuti fanatici ai quali è così facile ridurre l’islam. Certamente il mito parla di politica più che di storia. Coloro stessi che brandiscono l’Andalusia come esempio e argomento sono consapevoli di proporre un volantino, non un documento d’archivio. Si tratta di un programma, di un desiderio, più che di un dato scientifico. Non c’è da demoralizzarsi per questo: tutto sta nel saperlo. […] Il mito non è pura invenzione: riposa su elementi reali. Ma non è possibile trarre, basandosi su qualche periodo felice di cui conosciamo pochi frammenti, generalizzazioni valide per sette secoli di presenza musulmana in Spagna. È difficile erigere l’Andalusia medievale a modello ed è più che comprensibile come su questo gli storici siano sempre alquanto reticenti. E tuttavia non sono neppure gli storici i più zelanti nello sforzo di “demitologizzazione” di al-Andalus. Ci sono internauti in gran numero che profondono energie nella denuncia di questa scandalosa falsificazione della storia. […] Tutto questo è per me una ragione di più per non seguire la corrente. Se il primo programma pecca evidentemente di ingenuità, non sono sicuro di volermi allora associare, per smontarlo, ai sostenitori del secondo. Il mito sconta forse un ottimismo beato, ma denunciarlo induce facilmente a scivolar nell’apologia del rifiuto; se ci sarebbe molto da dire sulla tolleranza eretta a virtù cardinale, spesso senza discernimento, sarà sempre meglio che non sostituirla con la glorificazione dell’intolleranza. Davanti a questa sterile contrapposizione che sembra occupare tutto il terreno, come pretendere ancora di scrivere sull’Andalusia? Sarebbe tentante rifugiarsi nell’erudizione storica: rinunciare a parlare del presente concentrandosi su un passato peraltro affascinante. Ma nemmeno questo sarà il mio intento, poiché resto convinto che al-Andalus può parlarci ancora, e con fecondità, del nostro mondo, del nostro tempo. E che può dirci qualcosa di nuovo e necessario. La Spagna medievale è stata spesso dipinta come un luogo di tolleranza e d’armonia, per via di sincretismo o per l’indifferenza alle distinzioni religiose, necessariamente giudicate superficiali o secondarie. Tale sguardo, che proietta sull’Andalusia un modello ben più tardivo, quello della modernità occidentale, impedisce di vedere l’evidenza: essa fu anzitutto una terra di dialogo, spesso aspro, certo, talvolta violento, ma anche straordinariamente ricco. E l’orizzonte di questo dialogo, che prese la forma di dispute, di polemiche o di semplici conversazioni, è precisamente ciò a cui invece abbiamo creduto bene rinunciare: l’instancabile ed esigente ricerca della verità.