Foto epica. Mazzone, allenatore Brescia calcio nel 2001, si scaglia contro tifosi dell'Atalanta che gli avevano insultato la madre - Ansa
Se avesse avuto vent’anni di meno oggi sarebbe stato lui il ct ideale dell’Italia: Carletto Mazzone. A 86 anni il Sor di Trastevere vola via per sempre. Se ne va un maestro del calcio di poesia e un esempio di vita per i tanti ex ragazzi che ha guidato in campo e fuori.
Oggi queste teste bianche di quel calcio di ieri dicono «addio» al Maestro. Lo è stato di Francesco Totti, quando era ancora il Pupone di Trigoria, ma anche del Roby Baggio Pallone d’Oro a fine carriera nell’ultima avventura, anche per Mazzone, nel Brescia del patron Gino Corioni. L’altro presidentissimo amico fraterno, quasi quanto Costantino Rozzi, la grande anima dell’Ascoli da dove, nella stagione 1969-‘70, è iniziata la straordinaria avventura in panchina di mister Mazzone.
Con lui al timone il salto triplo del Picchio bianconero dalla C alla Serie A, giocando come si gioca a pallone solo in quel paradiso dove adesso lo abbracciano come dopo un gol. Il calcio del Mazzone ascolano era talmente bello a vedersi che la strada che porta allo stadio Del Duca si chiama “Via del calcio spettacolo”. Ed è stata intitolata in suo onore, a quel romano nel cuore, ma ascolano nell’anima, fino alla fine.
«Ahoo, a me a Coverciano m’hanno fatto i complimenti tutti, compreso Tommaso Maestrelli che voleva far giocare la sua Lazio all’olandese. Ma un giorno, prima dello scudetto del ’74, gli dissero: “Se vuoi vedere una squadra che gioca in quel modo non c’è mica bisogno di andare ad Amsterdam, basta che vai ad Ascoli a vedè che combina Mazzone...», questo mi disse in una delle chiacchierate ascolane. Ad Ascoli aveva trovato anche l’amore della sua vita, «l’allenatore de casa mica so io, ma mì moje», diceva divertito davanti alla signora Maria Pia: 63 anni di vita insieme.
Una Penelope del calcio che ha visto quest’uomo, pelato precoce, fintamente burbero ma dal cuore tenero, sempre con la valigia in mano e pronto per una nuova sfida, a patto di poter sempre a tornare a casa alla domenica sera dalla moglie e i loro figli, e poi per vedere crescere i nipoti.
Senza mai abbandonare Ascoli, Mazzone ha traslocato e lasciato il segno in ogni piazza in cui ha portato il suo credo calcistico. Via dal Del Duca a Firenze, in una Fiorentina in cui non fu il solito padre tenero con Bruno Beatrice e forse la sua pagina peggiore a rileggerla oggi: quella del Giallo Viola e delle morti misteriose a cominciare proprio dalla fine del 39enne Beatrice.
Ma per il resto tanti piccoli capolavori costruendo delle squadre-famiglia a Catanzaro, Bologna, Lecce, Pescara. E poi per intercessione del suo grande tifoso, il senatore Giulio Andreotti, il ritorno a casa, alla Roma nel trienno 1993-’96. E ancora Cagliari, al Perugia del vulcanico Luciano Gaucci al quale regalò la storica impresa dello scudetto del 2000 scucito all’ultima giornata dal petto della Juventus di Zidane e Del Piero, nel diluvio del Curi.
Gran finale di partita a Brescia. Con Baggio e Hubner altre giornate epiche e poi quella corsa furiosa (30 settembre 2001) sotto la curva dei tifosi dell’Atalanta che profanavano la memoria di mamma Mazzone, diventata un’immagine iconica di un calcio che sopravvive solo nella memoria di cuoio. Il giorno dopo il fattaccio rilanciato in mondovisione, Mazzone smaltita la rabbia da derby, con il suo sorriso sardonico da Sor Magara giustificava il gesto dell’ombrello agli atalantini con un candido «non ero io ma il mio gemello».
Potenza dell’ironia romanesca e profondità di analisi umana prima che tattica hanno stregato decine di allievi e forgiato due pezzi rari del calcio postmoderno: sor Claudio Ranieri (suo allievo a Catanzaro) e Pep Guardiola che dopo averlo conosciuto e studiato a Brescia lo invitò con eterna riconoscenza per il Maestro alla prima finale di Champions vinta con il Barcellona.
Lui, Carletto, invece ricordava a Italo Cucci in un’intervista su Avvenire per gli 80 anni «di non aver avuto maestri. La mia maestra è stata la sfortuna che mi ha troncato la carriera di calciatore dell’Ascoli facendomi fratturare la tibia e cambiare mestiere restando nel mondo che amavo. Il male fisico mi ha insegnato tanto, da uomo e da calciatore. Ma la mia fortuna fu Costantino Rozzi, il presidente bravo, serio, intelligente e buono che fermò la mia disperazione dicendo: “Carlo, non ti preoccupare, guarito o no starai sempre con me”». Profetico Rozzi, d’ora in poi il sor Carletto starà per sempre Lassù con il suo Presidente.