giovedì 27 maggio 2021
A 84 anni si è spenta la “ballerina assoluta”. Inizi difficili per una figlia di operai, poi una carriera da étoile luminosa partita dalla Scala per esibirsi in tutti i teatri del mondo
Carla Fracci

Carla Fracci - Fotogramma

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Un grande mazzo di fiori, appoggiati sul palcoscenico. Lei sorridente nel suo inconfondibile abito bianco, i capelli, nerissimi, raccolti sulla nuca e divisi ordinatamente da una riga. Il suo marchio di fabbrica - e non potevi non riconoscerla da uno sguardo anche veloce. Le braccia aperte, chiuse poi in un abbraccio, quasi a stringere tutti i danzatori del Corpo di ballo del Teatro alla Scala che non smettevano di applaudirla. Istantanea catturata al termine di una recita in streaming di Giselle, la “sua” Giselle, andata in scena qualche mese fa, inevitabilmente a porte chiuse, senza pubblico, per via della pandemia. Ecco l’ultima volta sotto le luci della ribalta di Carla Fracci, che a gennaio era «tornata a casa».

Nella sua casa artistica, il Teatro alla Scala, per una masterclass in sala da ballo proprio sul personaggio romantico per eccellenza, quella Giselle – uscita dalla fantasia di Théophile Gautier, messa in musica da Adolphe Adam e resa corpo danzante dai coreografi Jean Coralli e Jules Perrot – che lei ha reso unica. Identificandosi, in un’immedesimazione da grande attrice, con la ragazza di campagna che impazzisce per amore – capelli sciolti, il volto pallido, rigato dalle lacrime, gli occhi fissi nel vuoto ti lasciano ancora oggi un senso di inquietudine devastante. Danzata, la fragile Giselle, centinaia e centinaia di volte, in tutto il mondo da Mosca a Cuba. «Inevitabilmente i ruoli a cui si è più affezionati sono i tuoi cavali di battaglia e per me sono Giselle e Giulietta. Ma devo dire che nella mia carriera, lunga, lunghissima, ho imparato ad affrontare ogni ruolo con grande impegno» raccontava la ballerina che aveva mosso i primi passi, nel 1946, alla Scuola di ballo del Teatro alla Scala.

“Casa” dalla quale era stata a lungo lontana perché, alla fine degli anni Novanta, avevano detto no alla sua proposta di guidare la compagnia. «Una ferita rimasta a lungo aperta, una grande delusione di cui non riesco ancora a capacitarmi» ricordava qualche anno fa la ballerina, scomparsa stamani a 84 anni.

Con il “partner ideale”, Rudolf Nureyev

Con il “partner ideale”, Rudolf Nureyev - .


Ha chiuso gli occhi proprio nella sua Milano, accanto al marito Beppe Menegatti, sposato nel 1964, e al figlio Francesco, nato nel 1969, quando la «ballerina assoluta» come l’ha definita il New York Times, era già la danzatrice italiana più famosa di sempre. Perché dopo pochi anni nella fila del Corpo di ballo della Scala era diventata prima ballerina. Era il 1958. Il percorso di formazione, certo, era stato lungo, iniziato nel 1946, subito dopo che la famiglia Fracci era rientrata a Milano da Volongo, nel cremonese, dove era sfollata per la guerra: amici di papà Luigi e di mamma Santina, vedendo nella Carlina un senso innato del ritmo, suggerirono ai genitori di portarla alla Scuola di ballo del Teatro alla Scala. «E mi presero – raccontava sempre – per el me bel facin perché alla selezione ero finita tra le ragazzine da rivedere, il mio fisico gracile non aveva convinto la commissione. Ebbi la mia grande possibilità e la colsi al volo, lavorando molto».

Lo studio, possibile perché la scuola era gratuita. E Carla Fracci ha sempre rivendicato con orgoglio le sue origini proletarie, «figlia di un’operaia alla Innocenti e di un tramviere che quando passava con il tram sotto il Teatro alla Scala, dove studiavo, scampanellava per salutarmi». Anni di sacrifici anche se la ballerina diceva di non aver dovuto «rinunciare a nulla nella vita. Spesso si esagera nel raccontare il mondo della danza come un mondo di sacrifici e privazioni, certo la disciplina, la costanza e lo studio occorrono, non basta mettersi su un piedistallo e dire Io sono l’étoile per avere successo. Ma la vita che si conduce è una vita normalissima. Almeno per me lo è stata permettendomi di essere moglie e madre».

Sin da subito, dagli anni Cinquanta, l’invito a danzare all’estero: il London festival ballet e il Sadler’s Wells nella capitale britannica, lo Stuttgart ballet, il Royal swedish, l’American ballet di New York. «La mia vita è stata tutta una lotta, certo, se non avessi avuto gli incontri giusti non so se la mia carriera sarebbe stata la stessa. Ho avuto la fortuna di aver incontrato Anton Dolin che quando avevo 18 anni mi ha portata a Londra, Erik Bruhn che mi ha fatto debuttare all’American ballet. Esperienze fondamentali, certo, ma dopo le quali ho sempre voluto tornare a casa, nel mio teatro». Erik Bruhn, il partner più amato, Rudolf Nureyev, figura ingombrante, genio (assoluto) e sregolatezza della danza con il quale più di una volta ci furono scintille. E poi Mikhail Baryshnikov, Vladimir Vasiliev, Gheorghe Iancu sino a Roberto Bolle.

Carla Franci in sala prove prima di uno spettacolo

Carla Franci in sala prove prima di uno spettacolo - Ansa

«Molte le colleghe che ho stimato e stimo, Margot Fonteyn, Elisabetta Terabust, Alessandra Ferri, Sylvie Guillem e Svetlana Zakharova» raccontava Carla Fracci per la quale Eugenio Montale nel 1973 scrisse la poesia La danzatrice stanca. Negli anni Ottanta, chiuso il percorso scaligero, l’avventura della Compagnia italiana di balletto e le tournée con gli spettacoli realizzati per lei dal marito Beppe Mengatti. «Ho voluto portare la danza in provincia, andando con la mia compagnia in piccole città dove il balletto non era mai arrivato». Carla Fracci non ha mai smesso di ballare, anche quando ha diretto le compagnie del San Carlo di Napoli, dell’Opera di Roma e dell’Arena di Verona. Convinta che «la danza non è solo tecnica, ma stile e personalità da portare in palcoscenico. Guardare la gente per strada mi è servito perché quello che osservavo nella vita di tutti i giorni lo portavo in palcoscenico nei personaggi che interpretavo». Più di duecento ruoli sulle punte da Giselle a Giulietta, da Cenerentola a Coppelia, da Medea a Isadora Duncan.

Per lei hanno creato Anthony Tudor, John Cranko, Maurice Bejart. Per lei, già sessantenne, Roland Petit ha ideato Chéri ispirato al romanzo di Colette. «Non vivo per nulla il dramma dell’età che passa e guardandomi allo specchio non mi spavento per una ruga in più» diceva pensando alla sua vita, raccontata nel 2013 nell’autobiografia Passo dopo passo, libro al quale si ispira Carla, il film girato da Emanuele Imbucci per Rai Fiction con Alessandra Mastronardi nei panni della Fracci. Carla Fracci che in televisione è stata Giuseppina Strepponi, seconda moglie di Giuseppe Verdi, nello sceneggiato Rai sul compositore di Busseto, diretto nel 1982 da Renato Castellani. «La mia carriera è sempre stata all’insegna ella versatilità» diceva ricordando «di aver recitato Shakespeare accanto a Giancarlo Giannini e Gian Maria Volontè, ma anche di aver avuto l’onore di salire in palcoscenico con Paola Borboni». E quando nel 2016 Virginia Raffaele la imitò sul palco del Festival di Sanremo la chiamò per ringraziarla, perché «non l’ho presa come un’offesa, ma come un omaggio».

La militanza politica, dalla stagione dei Girotondi al ruolo di assessore alla Cultura della Provincia di Firenze dal 2009 al 2014. Il riconoscimento di Grande ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica. L’impegno per i giovani. «Per me è un dovere fondamentale provare a trasferire ai giovani il bagaglio che ho accumulato nella mia carriera. Un compito difficilissimo perché nella danza, come in altri campi, i giovani puntano più alla quantità che alla qualità. Una volta che hanno appreso la tecnica si sentono a posto, ma oltre la tecnica occorre lo stile, occorre imparare a interpretare i personaggi. E l’attenzione al dettaglio, lo scavo psicologico servono a evitare il rischio di fare Giselle uguale a Giulietta o a Cenerentola» ha detto sino all’ultimo. Sino a gennaio quando Mauel Legris, che dirige il Corpo di ballo del Teatro alla Scala, l’ha riportata a casa. Applauditissima dai giovani ai quali, in un ideale passaggio di testimone, Carla Fracci ha trasmesso i segreti della sua arte. Viva più che mai.

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