Lo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua, tra i più attesi al Festival di Mantova (Ansa/Albert Olive)
Abraham Yehoshua, classe 1936 e professore di letterature comparate ad Haifa, appartenente all’ideologia sionista laburista favorevole alla creazione di uno stato palestinese, è lo scrittore di punta dell’Israeli New Wave. Candidato al Premio Nobel da svariati anni, tornerà nel nostro paese per la 23ª edizione di Festivaletteratura, che si terrà a Mantova da mercoledì 4 a domenica 8 settembre. «Amo moltissimo l’Italia – spiega – e la conosco abbastanza bene. Anche se di solito non parlo dei miei progetti, posso dire che scriverò una novelletta ambientata da voi. Ho una relazione “calda” con i miei lettori italiani. E vorrei dare qualcosa in cambio: vorrei scrivere del rapporto tra ebrei e cristiani...».
Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Il tunnel (traduzione di Alessandra Shomroni, Einaudi 2018, pagine 344, euro 20, ndr).
«Il tunnel è un romanzo che parla di un uomo di circa 7273 anni, Zvi Luria, colto da un inizio di demenza senile ed è, quindi, la descrizione dei primi passi di questa malattia. Ho voluto interrogarmi simbolicamente sulla questione della memoria e sull’importanza di non ricordare. Il libro rivela anche il mio stato d’animo nei confronti di Israele oggi. Siamo divisi in molti gruppi etnici e siamo esageratamente attaccati alla memoria, e non a quello che accade attorno a noi. Ogni gruppo cerca di affermare e raccontare la propria memoria storica: arabi, ebrei, laici, nazionalisti, la questione dell’olocausto e dell’antisemitismo, evocando e sacrificando sé stessi alla memoria che diventa eccessiva, appunto, un ostacolo nella vita quotidiana. Ad esempio, la gente di Gaza ripete spesso di aver perduto le case settanta anni fa; poi ci sono i rifugiati, gli altri ebrei... La troppa memoria si trasforma in una barriera contro l’amicizia e la cooperazione tra persone».
In Il signor Mani, invece, i vari personaggi sfilano attraverso la storia e trasmettono un tragico retaggio di padre in figlio.
«In quel romanzo descrivo una particolare famiglia israelita, non tipica per il mondo ebraico. Sto parlando di ebrei del Mediterraneo orientale. Prima dell’olocausto il 90% di ebrei viveva in zone cristiane e solo il dieci per cento in zone musulmane. Nel Mediterraneo c’erano pochi ebrei e un tipo particolare di essi presentava un altro pensiero, una diversa visione del mondo già solo nel modo di parlare. Nel libro mi interessava, oltre a questo aspetto, mettere in rilievo la connessione inconsapevole delle giovani generazioni che non comprendono la loro relazione con le precedenti. Tu conosci i tuoi genitori, i nonni già un po’ meno, ma i genitori e i nonni dei tuoi nonni sono per te nella totale oscurità: eppure essi lavorano in te in una sorta di dialogo continuo... E questo dialogo che s’instaura tra cinque-sei generazioni rivela al lettore, come accade nel Signor Mani, le dinamiche abissali che coinvolgono il protagonista stesso».
Nei suoi romanzi è solito difendere il matrimonio. Perché?
«Perché credo che il matrimonio sia veramente importante, ma importante se celebrato nell’uguaglianza tra uomo e donna; il matrimonio è insostituibile per la strutturazione della famiglia e per il futuro dei bambini, per la stabilità generale. Ci sono persone che rompono il matrimonio molto facilmente e queste rotture repentine stanno diventando un pericolo per la società moderna. Inoltre, il problema più considerevole nell’Europa attuale è lo scarsissimo andamento demografico... Questo è il motivo per cui vi servono gli immigrati. Solo i matrimoni stabili possono assicurare un certo numero di figli, che è quello di cui l’Europa ha bisogno. So che in Italia il tasso di fecondità è fermo all’1,35...»
Non a caso l’amore è, per lei, fondamentale...
«L’amore è il fulcro, il più prezioso elemento dell’anima umana. Noi abbiamo bisogno di sviluppare l’amore, di coltivarlo, di immaginarlo, di inventare nuove vie dell’amore. Cosa sarebbe l’essere umano senza l’amore?»
Cosa ricorda di Amos Oz?
«Per sedici anni abbiamo vissuto un’amicizia profonda, solida. Siamo stati costantemente in dialogo, incontrandoci, leggendo vicendevolmente le bozze dei nostri libri. Anche litigando intorno ad alcune questioni politiche e discutendo animosamente sulle possibili soluzioni. È stato un amico importante e mi manca moltissimo. Dopo la perdita di mia moglie, avvenuta un anno fa, Amos mi è stato molto vicino. E ora che ho perso anche lui, mi sento solo e depresso.»
Crede che i nodi tra Israele e Palestina possa essere sciolti in qualche modo?
«Non penso esista più una concreta volontà di accordo. Per anni sono stato sostenitore della soluzione dei due stati. Vedo ormai che le possibilità di dividere la Cisgiordania e creare uno stato palestinese indipendente sono scarse. Circa mezzo milione di ebrei vive in Cisgiordania e sta ostacolando la creazione dello stato. Ma ci sono anche molti altri problemi. Credo che quello che ora serva ai palestinesi e quello che vogliono di più è l’uguaglianza e non un recinto di terra: loro voglio essere uguali agli israeliti. L’impossibilità di risoluzione, dunque, permane ma ritengo che la situazione di apartheid laggiù debba concludersi ed è questo il problema più urgente oggi: come abolire il muro dell’apartheid in Cisgiordania.»
Cosa le dice la figura di Gesù?
«Gesù è una figura importantissima proveniente dal mondo ebraico. È stato il promotore con Paolo di una sostanziale divisione tra la religione e lo stato, e questo emendamento, intercorso con la collaborazione successiva di Paolo, appunto, ha significato che più popoli potessero far parte della stessa religione. Contrariamente all’ebraismo che collega inscindibilmente la religione alla nazionalità di provenienza. Il progetto di Gesù e di Paolo era la scissione tra questi elementi e, quindi, la costituzione di una religione universale. Ovviamente rispetto questa idea e per me è anche un’idea morale.»