La scrittrice nigeriana Abi Daré presenta al Salone del Libro di Torino il suo romanzo d’esordio, 'La ladra di parole' (Nord) - Pasquale Juzzolino
Quand’era bambina, Abi Daré era molto incuriosita dalla lingua parlata da alcune sue amiche. «Non era l’inglese che studiavo a scuola, non era quello che parlavamo in casa - racconta -. Le mie compagne usavano espressioni che non avevo mai sentito. Capirle era un’impresa e, nello stesso tempo, qualcosa che suscitava ammirazione. Bisogna essere molto intelligenti per inventare la propria lingua». Nata e cresciuta a Lagos, Daré vive da quasi vent’anni in Gran Bretagna. Per il suo romanzo d’esordio, La ladra di parole (traduzione di Elisa Banfi, Nord, pagine 366, euro 18,00) ha deciso di servirsi proprio del Broken English, ovvero della lingua composita e fantasiosa orecchiata durante l’infanzia. «Ciascuno se la costruisce a modo suo, mettendo insieme frammenti di origine disparata. Un po’ come fanno i bambini quando imparano a parlare», spiega Daré, ospite in questi giorni del Salone internazionale del Libro di Torino.
Nel libro c’è un continuo controcanto fra la trama e l’impiego di dati statistici: come mai questa scelta?
Durante il lavoro di documentazione ho analizzato una mole enorme di informazioni. Ma un conto è sapere che in Nigeria una donna su due è analfabeta, un conto è immaginare la vita di una ragazza che lotta per uscire dalla condizione di marginalità alla quale la società vorrebbe condannarla. La protagonista del romanzo, Adunni, si trova in questa condizione, che è la stessa di tante giovani donne che crescono nei villaggi. In questo momento la Nigeria è un Paese molto complesso e il luogo in cui si nasce rappresenta una discriminante rispetto alle opportunità di istruzione e di emancipazione, in particolare per quanto riguarda le donne.
Quali sono le alternative?
La visione tradizionale, ancora molto diffusa fuori dalle grandi città, equipara la donna a una specie di accessorio domestico: le si impedisce di studiare, ci si aspetta che si occupi della casa e dei figli, le si impone di obbedire al marito senza discutere. Nel frattempo, la donna deve contribuire alla famiglia anche dal punto di vista economico e guardarsi dalla rivalità con le altre mogli. A dispetto delle disposizioni ufficiali, infatti, la poligamia continua a essere molto diffusa, con conseguenze che non è difficile prevedere. Ma è in atto anche un processo di cambiamento, che assegna alle donne ruoli rilevanti nell’opinione pubblica, nelle aziende e nelle istituzioni. Personalmente sono testimone del percorso di mia madre, che un paio di anni fa è diventata la prima donna a insegnare diritto fiscale e tributario in un’università nigeriana. Posso testimoniare che non è stato facile. Per imporsi in un ambiente dominato dal potere maschile, mia madre ha dovuto produrre un numero impressionane di pubblicazioni. Alla fine, però, ce l’ha fatta.
Malala nel campo dell’educazione, Greta Thunberg in quello del clima: oggi le principali figure di riferimento sono femminili.
Aggiungerei Michelle Obama e Chimamanda Ngozi Adichie, che per le donne di origine africana rappresentano modelli molto importanti. A mio avviso, l’aspetto più interessante è che, a differenza di quanto accadeva in passato, l’affermazione del femminile non avviene in polemica con il maschile. Queste donne sono alla guida di un movimento che coinvolge tutti, senza alcuna contrapposizione o esclusione. Del resto, anche Adunni sul suo cammino incontra uomini di cui si può fidare e donne da cui diffidare.
E poi c’è Tia, che si prende cura di lei.
Sì, ma lo fa veramente dopo un’esperienza inattesa e umiliante, per la quale mi sono ispirata a un episodio reale, riferitomi in confidenza da chi l’ha vissuto. Tia è colta, benestante e istintivamente desidera fare qualcosa per Adunni. A un certo punto, però, tocca anche a lei portare il peso di una mentalità che colpevolizza e punisce la donna per il solo fatto di essere donna. Come se non bastasse, sono altre donne a infierire su di lei, in un misto di superstizione e pregiudizio. A quel punto che Tia comprende dentro di sé il dramma di Adunni e fa di tutto perché la ragazza possa affrancarsi. Dalla filantropia passa alla compassione.
Posso chiederle qual è la sua posizione a proposito della cosiddetta cancel culture?
Confesso di avere molte perplessità, specialmente per quanto concerne le eventuali applicazioni in ambito artistico. Gli scrittori stanno diventando sempre più timorosi, sempre più restii nell’affrontare temi controversi o nel raffigurare determinati personaggi. Sinceramente, non mi sembra una buona soluzione. Occorre trovare un equilibrio tra il rispetto dell’altro e la libertà di espressione. Altrimenti, pur con tutte le buone intenzioni del caso, si finisce per praticare un’autocensura non meno odiosa della censura stessa.
Che cosa ha pensato quando ha saputo dell’assegnazione del Nobel a uno scrittore africano?
Sono stata felice per l’Africa, indubbiamente. Ma mi pare che la vicenda di Abulrazak Gurnah abbia un valore ancora più ampio. Parliamo di un autore che ha lavorato a lungo in maniera appartata, con una costanza e una determinazione grazie alle quali adesso ha ritenuto questo straordinario riconoscimento.
Come ha fatto sua madre all’università, no?
Esattamente. È la dimostrazione che questo tipo di coraggio non serve solamente alle donne.