Abelardo ed Eloisa in una miniatura del XIV secolo - archivio
«Mai, Dio lo sa, ho cercato in te niente altro che te. Non desideravo i legami del matrimonio né mi ripromettevo vantaggi, e ho bramato non la soddisfazione delle mie volontà o delle mie voluttà, ma, e ben lo sai, delle tue. Senza dubbio il nome di sposa sembra più sacro e più forte, ma io ho sempre preferito quello di amante o, perdonami se lo dico, quello di concubina e di prostituta. Perché più mi umiliavo per te, più speravo di trovare grazia presso di te e, umiliandomi così, speravo di non ferire in nulla lo splendore della tua gloria». Così Eloisa scrive ad Abelardo dopo aver letto la sua Historia calamitatum mearum, ove il filosofo raccontava per filo e per segno quanto accaduto fra loro. Era una dichiarazione di amore totale, di «un completo, assoluto disinteresse», commenta Étienne Gilson in uno dei libri più rilevanti dedicati a quella che Stendhal avrebbe definito il prototipo della passione d’amore. Parliamo di Eloisa e Abelardo, pubblicato nel 1938 e di cui ora la casa editrice Jouvence manda in libreria una nuova traduzione italiana (pagine 208, euro 18,00).
Si tratta di una serie di lezioni tenute dallo storico della filosofia al Collège de France nel 1937, testi che trattano dello sfondo ideologico della vicenda, per scoprire «se con le passioni semplicemente umane che vi si scatenano, le convinzioni dottrinali dei due amanti non ne costituissero piuttosto l’armatura». Così Gilson indaga nelle pieghe dell’epistolario più famoso del Medioevo, «un documento umano d’una ricchezza e di una bellezza tali che lo si può annoverare a buon diritto fra i più commoventi della letteratura universale».
Dopo aver sciolto i dubbi relativi alla sua autenticità, Gilson commentando le lettere penetra nella psicologia dei due protagonisti. E mette sotto accusa l’orgoglio di Abelardo, considerato allora il più celebre maestro di Parigi e non solo, tanto che lui stesso poté scrivere: « Io credevo di essere rimasto l’unico filosofo al mondo». Ma anche Eloisa, nonostante la giovane età, era già considerata una letterata e conosceva il greco e l’ebraico oltre al latino. Poi Gilson ricostruisce la loro storia: Eloisa che nel 1117 frequenta le lezioni di Abelardo sulla collina di Sainte Geneviève e il loro reciproco innamoramento fino all’esplodere di una passione irrefrenabile. «Eloisa aveva tutto ciò che più seduce gli amanti», scriverà poi Abelardo ed Eloisa a sua volta: «Ti ho amato di un amore sconfinato».
La loro storia diventa sempre più pubblica e lo zio di Eloisa, il canonico Fulberto, a cui era stata affidata perché ne curasse l’educazione, li scopre. Eloisa intanto è rimasta incinta e partorisce un bimbo, chiamato Astrolabio. Abelardo per riparare si offre di sposarla nonostante la sua contrarietà, perché il matrimonio avrebbe nuociuto alla carriera del filosofo. Le nozze vengono perciò celebrate in segreto, ma dopo che Fulberto divulga la notizia, per evitare scandali Abelardo manda Eloisa nel monastero di Argenteuil dove era stata educata. Pensando che Abelardo volesse costringere Eloisa a farsi monaca, i parenti come noto lo puniscono severamente evirandolo. Dopodiché entrambi gli amanti si dedicano a una vita di meditazione e studio. Abelardo diventa abate di Saint Gildas in Bretagna per tornare a insegnare a Parigi, mentre Eloisa prende i voti e trascorre il resto della sua vita in convento. Alla morte di Abelardo, nel 1142, il suo corpo verrà trasportato al Paracleto, a Troyes, dove Eloisa era divenuta badessa. Quando morirà, nel 1164, verrà sepolta al fianco di Abelardo.
Gilson dedica molta attenzione alla questione delle nozze e sentenzia: «Abelardo dissimula il suo matrimonio, per poter essere ancora creduto un Seneca o un san Gerolamo; Eloisa offre il concubinato per permettergli di ridiventarlo; la tragicità del dramma sta nella sincerità perfetta con cui l’uno e l’altra si recitano la commedia della santità». Ma nelle lettere Eloisa emerge come un’eroina, amante ancora appassionata disposta a tutto perché Abelardo non perda in nulla la sua fama di grande filosofo e teologo, al punto di accusare Dio per la sventura che li ha colpiti. Come annota Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri nell’introduzione a una delle migliori edizioni delle Lettere, uscita da Bur nel 1996, in Eloisa « non era cessata, né finì mai, la sua ammirazione totale, sconfinata, per Abelardo maestro, filosofo e guida morale». Invece per lui la donna amata è ormai «una carissima sorella » che sollecita alla pace interiore, a cui Eloisa approderà col passare del tempo, tanto che nella sesta lettera, annota «la più dolorosa, rinuncia a parlare d’amore e promette di dominare la sua passione».
Gilson da parte sua celebra una citazione dello storico Henry Adams, per il quale «il secolo XII, nonostante tutto il suo splendore, sarebbe sbiadito senza Abelardo ed Eloisa», e ne approfitta per smentire i pregiudizi sui secoli bui di Jacob Burkhardt, che ha posto in contraddizione Medioevo e Rinascimento, quest’ultimo ritenuto «il primo a scoprire e mostrare in piena luce l’uomo nella sua interezza». E al termine del libro può chiosare facilmente: «Un uomo senza individualità, incapace di analisi, senza gusto: ecco dunque l’uomo come lo ha fatto il cristianesimo? Se, per fare un Rinascimento, sono necessarie delle individualità sviluppate al più alto grado, le nostre due non saranno sufficienti?». Abelardo ed Eloisa rappresentano uno «scoglio fatale per le tesi di Burckhardt».